FRONTIERE

Dante e le lettere ebraiche. Un incontro con Asher Salah

Di Fabrizio Franceschini*

Nel 1847 il giovane e ancor poco noto rabbino di Livorno Elia Benamozegh, rivolgendosi ai correligionari Israeliti (ma non solo a essi) esclamava: “Voi siete italiani! … Chi di voi nelle umane e divine glorie ai portentosi nomi di Mosè e di Dante non inchina reverente la testa?”. Nel nome di Dante, significativamente affiancato a Mosè, avviene quel processo còlto poi dal giovane Arnaldo Momigliano, in una pagina apprezzata da Gramsci (Quaderni dal carcere): “la formazione della coscienza nazionale italiana negli Ebrei è parallela alla formazione della coscienza nazionale nei Piemontesi o nei Napoletani”. Gli ebrei italiani non entrano in una nazione preesistente, acquisendovi la parità, ma sono un’importante e paritaria componente della nascita stessa della nazione.

Di questo si è discusso in un incontro telematico tenutosi il 16 dicembre 2020, su iniziativa dell’Associazione Italia-Israele di Firenze-Prato-Pistoia e del Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici dell’Università di Pisa. L’incontro, aperto da Lucia Livatino, David Palterer e Maya Katzir, addetta culturale dell’Ambasciata d’Israele, si è incentrato sull’intervento di Asher Salah (Bezalel Academy, Università ebraica di Gerusalemme). Il rapporto tra il mondo ebraico italiano e Dante è stato trattato da Salah in una presentazione di grande fascino, per la sua conoscenza degli studi italiani e internazionali in materia e la sua viva attenzione al rapporto tra testi e immagini.

L’interesse di significativi esponenti della cultura ebraica italiana per Dante era già vivo alla scomparsa del poeta (che tutto il mondo sta per ricordare, settecento anni dopo). Bosone da Gubbio, autore di una presentazione in terzine volgari della Commedia, scrisse allora un sonetto a Manoello Giudeo, invitandolo a piangere quella morte, per quanto Deo / Dante abbia posto ’n glorïoso scanno; Manoello, Immanuel ha-Romi o Romano, nato negli anni ’60 o ’70 del sec. XIII, risponde, per le rime, che ben può pianger Christiano e Giudeo. Nella prima fase di diffusione della Commedia, un cugino o stretto parente di Immanuel, Yehuda o Giuda Romano, nato attorno al 1292, filosofo e traduttore, ci ha lasciato una traslitterazione in caratteri ebraici, con tratti giudeo-italiani, di brani del Purgatorio (XVI, 73-76) e del Paradiso (V, 73-85; XIII, 52-54; XX, 49-54). Lo stesso Immanuel, in una delle sue Machbarot (Composizioni) dal titolo ha-Tofet ve-ha-Eden (l’Inferno e il Paradiso), descrive il suo viaggio ultraterreno accompagnato da una guida di nome Daniel. Sui rapporti dell’opera con la Commedia molto si è discusso. A ogni modo, come ha ricordato Salah, l’opera di Immanuel si apre con “Dopo che erano trascorsi sessanta dei miei anni”, che richiama “Nel mezzo del cammin di nostra vita”, e si chiude, come la Commedia, con la parola kokavim ‘stelle’ nella formula “come le stelle in eterno”, che al contempo ripete Daniele 12 3 (quasi stellae in perpetuas aeternitates, nella Bibbia latina).

Rispetto a questi e altri esempi, Salah ha mostrato che le citazioni e i riferimenti danteschi negli autori ebrei dei secc. XIV- XVIII, meno numerosi di quanto spesso asserito, sono talora nascosti o, se espliciti, figurano in opere di carattere non imitativo ma emulativo, in cui l’autonomia e la diversità della cultura ebraica non sono offuscate dalla familiarità coi grandi autori italiani (Dante, ma anche Petrarca, Ariosto, Tasso).

Come Salah aveva già sostenuto nel 2013 in A Matter of Quotation: Dante and the Literary Identity of Jews in Italy, tra questo tipo di riferimenti a Dante e quelli successivi all’emancipazione (vedi Benamozegh) c’è un cambiamento di paradigma. Nella prima fase prevalevano l’identità ebraica e la citazione come strategia competitiva. L’emancipazione, il protagonismo risorgimentale e l’integrazione spostano invece l’accento sull’identità tra tutte le componenti che fondano la nuova Italia. Dante è dunque decisivo, come fondatore della lingua e dell’identità italiana prima che l’Italia fosse una nazione, ma anche come esule braccato, ghibellin fuggiasco col Foscolo, vicino a quel Galut (esilio, diaspora) che è connaturato agli ebrei d’Italia e d’Europa.

*Fabrizio Franceschini è Direttore del Centro Interdipartimentale di Studi Ebraici, Università di Pisa

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