FRONTIERE

Dalla caduta di Assad alla nuova presidenza Trump: il caos internazionale è all’orizzonte?

di Axel Famiglini

Il 27 novembre 2024 rappresenta indubbiamente una pietra miliare per la storia del Medio Oriente perché nello stesso giorno ha avuto inizio sia la tregua tra Israele e Hezbollah che l’offensiva finale dei ribelli anti-Assad, la quale ha condotto in brevissimo tempo alla caduta del regime di Damasco. Dopo anni di furiosa guerra civile che sembrava aver sancito una sostanziale vittoria di Assad grazie all’aiuto russo-iraniano, le forze regolari siriane si sono dissolte come neve al sole portando, forse, alla conclusione di un conflitto intestino che ha spezzato le vite di centinaia di migliaia di persone e che ha prodotto milioni di sfollati e rifugiati. Appare evidente che l’operazione condotta dai ribelli sostenuti dalla Turchia sia stata intrapresa, in un certo senso, in coordinazione con più ampie manovre geopolitiche in atto nell’area in quanto la sincronicità fra quanto accadeva in Libano e quanto verificatosi in Siria non può essere ritenuta casuale. Israele ha indubbiamente sconfitto l’Iran e i suoi satelliti sia sul piano tattico che strategico. Teheran non è riuscita a reggere il confronto con gli Israeliani in un conflitto che in buona misura è stato combattuto indirettamente, dimostrando sul piano internazionale che alle parole gli ayatollah non sono stati in grado di far seguire i fatti.

Il contribuito americano alla vittoria di Israele è stato determinante sia sul piano bellico che logistico e non si può non rammentare che gli stessi Americani abbiano partecipato attivamente alla corsa per Damasco, attaccando le milizie sciite che dall’Iraq stavano cercando di portare soccorso al regime di Assad. In Siria la parte del leone è stata recitata dalla Turchia di Erdogan la quale, dopo forti pressioni esercitate da parte britannica in funzione anti-russa, ha organizzato l’offensiva decisiva contro Damasco, il cui esito finale ha sorpreso un po’ tutti, sia dal lato pro Assad che contro, andando ben oltre quelle che presumibilmente erano le più rosee aspettative di tutti gli attori in lotta contro il regime. L’ex presidente siriano, a ben vedere, ha mancato di avviare un vero processo di riconciliazione nazionale e di ricostruzione delle proprie forze armate, le quali, deprivate di effettivi professionisti in gran parte falcidiati durante la lunga guerra civile e dotate di mezzi ormai scarsi ed obsoleti, non hanno saputo reggere il confronto con le forze ribelli fortemente motivate e ben armate dai Turchi senza l’aiuto concreto di Russi ed Iraniani, già pesantemente impegnati su altri fronti di guerra, i quali, presi oltretutto alla sprovvista, hanno probabilmente sopravvalutato la concreta capacità di reazione delle truppe del regime.

La precaria situazione economica del Paese, schiacciato dalle sanzioni internazionali e trasformatosi in un “narcostato” per sopravvivere, ha fortemente contribuito ad offuscare l’astro di Assad in patria, ormai inviso a gran parte della società siriana, compresa la minoranza sciita a cui egli stesso apparteneva e alla quale Assad aveva richiesto un elevato tributo di sangue, avendola utilizzata, nel corso della guerra civile, quale bacino di reclutamento preferenziale per le forze governative.  Erdogan, dopo aver giocato su tutti i tavoli possibili della diplomazia internazionale e aver fatto buon viso a cattivo gioco a seguito di quella che sembrava essere stata una sconfitta in Siria, ha colto l’occasione per ottenere una rivincita laddove i giochi sembravano ormai decisi. Nonostante, a parole, Erdogan si sia veementemente scagliato più volte contro Israele e abbia espresso la sua stretta vicinanza ad Hamas e alla causa palestinese, nei fatti ha ampiamente beneficiato del pesante indebolimento che Assad ha subito a causa dei continui attacchi israeliani, i quali hanno martellato senza sosta uomini e mezzi iraniani in suolo siriano, nei fatti spezzandone le capacità offensive e difensive.

Dal canto loro gli Iraniani hanno dovuto concentrare le proprie risorse e quelle dei propri alleati a favore di Hezbollah, Hamas ed Houti, lasciando scoperta e totalmente vulnerabile la Siria.

I Russi, come noto, sono concentrati nel conflitto in Ucraina ed evidentemente non possono permettersi di farsi coinvolgere in un secondo conflitto impiegando mezzi che sono indispensabili sul fronte europeo. Probabilmente i Russi non si aspettavano che gli Iraniani non si sarebbero dimostrati all’altezza della situazione quando hanno pensato di sfruttare le tensioni mediorientali a proprio vantaggio e di delegare loro la completa direzione delle operazioni belliche nella regione. In quest’ottica Teheran non si è rivelata essere un alleato affidabile, in particolare a fronte del fatto che non solo l’Iran non ha saputo condurre dignitosamente il conflitto, ritrovandosi infine confinata in un angolo, ma addirittura nulla ha potuto fare per puntellare il regime di Damasco, creando non poco imbarazzo al Cremlino che da una posizione di forza nell’area si è improvvisamente trovato in una situazione di estremo svantaggio.

Da un certo punto di vista, l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, scatenato in primo luogo sotto i buoni auspici iraniani, ha prodotto una reazione israeliana di tale proporzione da portare ad un parziale collasso buona parte della rete di alleanze e delle forze militari che Teheran aveva costruito e coltivato nella regione per anni, sancendo, oltretutto, l’inizio della fine per Assad. Netanyahu, pur caratterizzato da personali interessi legati alle sue pendenze giudiziarie, ha probabilmente ragione quando dichiara che la sua energica risposta miliare stia contribuendo a ridisegnare la mappa delle relazioni mediorientali.

Non si può escludere che la lunga riluttanza israeliana nel farsi coinvolgere in veri colloqui di pace fosse anche dettata dal fatto che Israele attendeva sviluppi che le avrebbero permesso di poter trattare da una maggiore posizione di forza. E’ in tal senso innegabile che l’Iran, il quale aveva avviato la sua campagna proclamando ai quattro venti che avrebbe ridotto Israele in cenere, non solo sia stato sconfitto su tutti i fronti ma che addirittura la sua politica di cieca ostilità contro Israele abbia prodotto una perdita di carattere epocale quale quella del proprio alleato siriano e la scomparsa del contestuale corridoio che permetteva il collegamento via terra dall’Iraq al Libano a favore di Hezbollah, in un più ampio contesto di proiezione mediterranea.

Se gli Iraniani temevano la completa riconciliazione tra le monarchie del Golfo ed Israele, l’esito del disastroso conflitto a Gaza e in Libano probabilmente produrrà un’accelerazione di tale processo anche in considerazione del fatto che Sauditi ed alleati dovranno tenere conto della riaffermazione della supremazia israelo-americana nella regione e della diminuzione del peso di Teheran. Gli stessi Americani hanno incoraggiato il governo iracheno a cogliere l’occasione e di sfruttare la debolezza iraniana per scrollarsi di dosso la pesante ingerenza di Teheran. Il fallimento dei piani iraniani in area palestinese ha costretto Hamas, rimasta isolata dopo la sconfitta di Hezbollah e di Assad, a pervenire ad un accordo con Israele per un cessate il fuoco e la riconsegna degli ostaggi rimasti ancora in vita. Difficile dire quale sarà la sorte delle basi russe in Siria. Indubbiamente la Turchia, la quale ha ricoperto a lungo il ruolo di mediatore tra Russia ed Occidente pur ponendosi in opposizione, nei fatti, sia contro l’una che contro l’altro, farà pesare a Mosca il proprio nuovo ruolo di vincitore e di supervisore del nuovo governo siriano, forse rinegoziando a suo favore con Putin i termini della loro coabitazione in Libia in cambio di una sopravvivenza “diminuita” delle basi russe in Siria. L’eventuale spostamento delle risorse russe ancora ubicate in Siria in suolo libico dovrebbe costituire per l’Italia e per l’Europa un campanello di allarme di non poco conto.

Rimane oscuro il ruolo che Erdogan intende costruire per la Turchia a seguito di questo poderoso rilancio per il suo Paese dato che può nascere il concreto sospetto che i sogni di gloria neo-ottomani possano riprendere grande slancio a partire proprio dalla Siria. Se la guerra civile contro Assad sembra (apparentemente?) essersi conclusa, il futuro del Paese rimane incerto.

Non è chiaro come il governo dell’ex-qaedista “ripulito” Al-Jolani saprà unire e armonizzare le varie anime della Siria, in parte ancora oggi legate a logiche tribali e settarie. Già si sono registrate proteste e scontri che hanno coinvolto i cristiani, i drusi e gli alauiti. Questi ultimi rappresentano il gruppo religioso di appartenenza del presidente deposto Assad e in quanto tale è stato preso di mira dalla maggioranza sunnita a seguito del turbine di vendette e di regolamenti di conti che si sono scatenati a seguito della caduta del regime. Gli stessi ribelli siriani sponsorizzati dalla Turchia, pur promettendo sulla carta pari diritti per tutti i gruppi etnico-religiosi della Siria, hanno dovuto pagare il conto dell’aiuto offerto da Erdogan attaccando i curdi siriani, essendo costretti ad assecondare i piani di Ankara sulla questione. Pur tra luci ed ombre, su questo punto stanno tuttavia intervenendo gli Americani con un’opera di mediazione in quanto i curdi sono tuttora loro alleati nella regione. L’Iran, per quanto indebolito e scosso dai rovesci subiti, potrebbe promuovere la creazione di nuovi gruppi di opposizione anche armata in Siria al fine di inquinare la politica nazionale ed eventualmente rinfocolare la guerra civile contro il nuovo corso instaurato a Damasco. Piuttosto che farsi coinvolgere in un dispendioso scontro diretto il cui esito, visti i trascorsi, potrebbe essere catastrofico, Teheran potrebbe valutare vantaggioso alimentare una nuova stagione di lotte fratricide in Siria con finalità controrivoluzionarie e per instaurare nuovamente un governo filoiraniano nel Paese. La stessa Russia, impegnata fin sopra ai capelli nel suo scontro a tutto campo contro l’Occidente, potrebbe giudicare positivamente un approccio di questo tipo. Ciononostante si è aperta una finestra di opportunità per il campo occidentale per regolare i conti sia con l’Iran che con la Russia proprio a fronte di quello che è stato il fallimento del secondo fronte mediorientale voluto da Mosca e Teheran, uscite entrambe malconce anche sul piano del prestigio internazionale. La sconfitta strategica russo-iraniana in Medio Oriente, oltre ad alimentare l’idea che il gruppo dei BRICS costituisca in realtà un colosso dai piedi d’argilla, ha in parte riequilibrato la situazione assai critica del fronte ucraino dove Kiev perde terreno giorno dopo giorno e dove tutto lo scenario inizia ad apparire sempre più disperato.

Alla diminuzione del consenso pubblico nei confronti della politica di resistenza ad oltranza promossa da Zelensky, si sommano i sempre più frequenti tentativi di diserzione e di fuga dalla coscrizione militare che talvolta finiscono tragicamente nel sangue con la morte dei renitenti alla leva, certamente non incoraggiando gli Ucraini ad incrementare la propria fiducia nel governo di Kiev e nella vittoria finale.

I mezzi e gli uomini a disposizione dell’esercito ucraino risultano insufficienti e come se ciò non bastasse l’esercito nordcoreano è intervenuto nel conflitto a favore della Russia all’interno della regione di Kursk, una mossa certamente pericolosa sul piano internazionale ma al momento contenuta, non a caso, al di qua del confine russo internazionalmente riconosciuto. E’ stata altresì segnalata la partecipazione, fra le altre nazionalità presenti, di yemeniti reclutati nell’esercito russo, dimostrando come la presenza russa in Medio Oriente si sia assai approfondita nel corso degli anni. L’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti costituisce indubbiamente una possibile tragica battuta di arresto in un processo che avrebbe dovuto sfruttare il momento favorevole in Medio Oriente per mettere sotto pressione la Russia in Europa.

Le posizioni isolazionistiche e fortemente nazionalistiche di Donald Trump sono ben note per essere qui ripetute. Vi sono tuttavia delle novità rispetto alla “fase uno” del presidente Trump che se da un lato fanno comunque parte del personaggio dall’altro suscitano ben più di qualche preoccupazione. Il nuovo corso trumpiano rischia di essere dirompente per l’unità dell’Occidente e per le sue istituzioni democratiche. Trump ha recentemente dichiarato che sarebbe opportuno che il Canada entrasse a far parte degli Stati Uniti d’America quale cinquantunesimo stato. Come se ciò non bastasse ha minacciato l’occupazione della Groenlandia e del canale di Panama. Per non farsi mancare nulla, Trump ha dichiarato di voler cambiare il nome del “Golfo del Messico” in “Golfo d’America”.

Il facoltoso alleato di Donald Trump, il famoso multimiliardario Elon Musk, personaggio dagli usi e costumi tanto discutibili quanto quelli di Donald Trump se non di più, ha ingaggiato una spregiudicata campagna acquisti presso la destra europea, a partire dal Reform UK di Nigel Farage (che però non vuole più come leader causando il vivo risentimento dello stesso Farage), toccando in maniera importante Paesi quali la Francia, l’Italia e la Germania e conquistandosi le più vive simpatie delle “democrazie illiberali” già trionfanti nel Vecchio Continente nonché della variopinta galassia di partiti e partitini dell’estrema destra. L’obiettivo di Musk è di portare in dote a Trump movimenti politici affini che possano assumere la guida dei Paesi di appartenenza, ponendosi in piena sintonia con il trumpismo imperante a Washington, i cui effetti sul suolo americano si appaleseranno nel prossimo futuro con il rischio che la deriva reazionaria trumpiana sbarchi presso quei Paesi europei ove i tentacoli di Musk siano riusciti ad avvinghiare meglio le loro istituzioni. Non si può neppure escludere che Musk possa pretendere, quale riconoscimento per i suoi servigi, il mutamento costituzionale che gli permetterebbe un giorno di candidarsi alla presidenza USA, un’eventualità oggi per lui non possibile non essendo nato negli Stati Uniti d’America.

Quale tipo di azione politico-diplomatica possa intraprendere il duo Trump-Musk a favore della martoriata Ucraina è assai arduo definirlo, in particolare a fronte dell’affinità spirituale esistente fra questi individui e il “nuovo zar” e della “corrispondenza di amorosi sensi” che vi è tra Trump e la figura politica di Vladimir Putin e il suo governo autoritario. Putin ha necessità di dimostrare ai Russi e al mondo intero di aver raggiunto tutti i propri obiettivi in Ucraina che lui stesso ha dichiarato essere di natura esistenziale per la Russia. A questo punto del conflitto, con alcune centinaia di migliaia di morti sulle spalle e un’intera economia nazionale votata al sacrificio per la Patria, un ingresso concordato della Siria nella sfera di influenza occidentale in cambio di una posizione euroatlantica meno intransigente sul destino di Kiev difficilmente potrà ammorbidire le sue istanze sull’Ucraina, così come l’ammirazione di Trump e Musk per l’uomo forte del Cremlino rende dubbio un loro incrollabile impegno per un’Ucraina libera ed indipendente posta al sicuro sotto l’ombrello della Nato e della UE. Rimane altresì da definirsi come Trump potrebbe reagire se si sentisse infine raggirato da Putin in seno ad una trattativa dove lo “zar del Cremlino” farà di tutto per ottenere ciò che ritiene essere suo di diritto. Pensando al carattere imprevedibile e mutevole del prossimo presidente degli Stati Uniti c’è sinceramente di che preoccuparsi.

Appare in ogni caso evidente che se Trump cederà su tutta la linea in Ucraina, la sconfitta sarà cocente per l’Occidente e se gli USA possono ancora permettersi di assorbire il contraccolpo (pur subendo in ogni caso danni morali e materiali non irrilevanti), i Paesi europei, spinti all’inizio della guerra nel sostegno all’Ucraina proprio dagli Americani (e dagli Inglesi), ne pagheranno il prezzo più salato in termini sia di sicurezza che di credibilità e potere contrattuale sul piano internazionale. Nel caso di capitolazione dell’Ucraina o di una pace che assomigli molto ad una disfatta, la Russia, con un’America voltata dall’altra parte se non addirittura complice, troverà sostanzialmente una porta aperta per fare ciò che vuole in Europa.  Se il destino dell’Ucraina si presenta assai nebuloso e incerto, altrettanto denso di incognite appare il futuro dei rapporti euro-atlantici. L’aggressione politica di Musk all’Europa rappresenta un atto di una gravità estrema che rischia di mutare radicalmente le relazioni fra Vecchio e Nuovo continente.

Il tentativo da parte di un magnate dotato di inedite capacità finanziarie e tecnologiche di orientare la politica di interi stati nazionali sovrani nella direzione da questi voluta rappresenta un attentato alla sovranità, alla democrazia e alla libertà e non depone certo a favore di sereni rapporti diplomatici tra le due sponde dell’Atlantico. Una tale situazione porta indubbi benefici al Cremlino, il quale, ultimamente assai impegnato in azioni finalizzate ad influenzare il processo elettorale di Moldavia e Romania, è riuscito a russificare nuovamente la politica georgiana. Risulta fra l’altro palese e drammatica all’ennesima potenza la convergenza ideologica tra Putin, Trump e Musk i quali sostengono tutti la stessa tipologia di forze politiche, il che rende assai cupo e incerto il futuro istituzionale e democratico del mondo occidentale.

Non appare semplice prevedere cosa potrà fare l’Europa di fronte ad un tale fuoco di fila da est e da ovest, con un Macron “dimezzato” (che pure prova a mediare con Trump a favore di Zelensky e a conservare un ruolo in Medio Oriente, in particolare in Libano), uno Starmer in seria difficoltà ed un governo tedesco che non esiste più. Sarà interessante vedere quale posizione vorrà assumere Giorgia Meloni, ovvero se incarnare il ruolo di autonoma interlocutrice di Trump nonché di mediatrice con i piedi ben piantati in Italia e in Europa o diventare una semplice subordinata del nuovo presidente americano, magari con una delega non scritta a rappresentarlo a livello europeo, limitandosi ad imitare il “nuovo linguaggio” che verrà trasmesso dalla futura Washington trumpiana.

Ad onor del vero non tutto quello che Trump dice, nonostante gli accresciuti toni folkloristici, è privo di un qualunque briciolo di fondamento. Per quanto riguarda la Groenlandia e il Canada si può scorgere dietro alle sue parole, pur con fatica, il grande tema delle rotte boreali e dell’influenza sino-russa nell’Artico. Le vaste risorse minerali della Groenlandia già da tempo suscitano gli appetiti cinesi e probabilmente un governo danese mosso da una cultura geopolitica microbica sta sottovalutando le implicazioni negative che un’indipendenza della Groenlandia mal gestita può produrre per l’intero Nord America. Parimenti il Canada probabilmente non viene ritenuto totalmente affidabile sul tema dei rapporti con la Cina e della trasparenza delle linee di indirizzo della propria politica estera. L’intero Mar Glaciale Artico rappresenta un grande serbatoio di materie prime e il suo controllo è sempre più determinante per tutti gli attori in gioco a fronte di una calotta polare che negli ultimi decenni sembra volersi in parte ritirare. Grandi implicazioni geostrategiche possiedono le postazioni difensive ubicabili nell’estremo nord, a cominciare da quelle dei missili balistici intercontinentali con testata nucleare. Gli USA presumibilmente stanno meditando su come contenere l’espansionismo sino-russo nella regione e sulla possibile dislocazione delle proprie forze, un disegno strategico che evidentemente richiede la piena collaborazione sia del Canada che della Groenlandia. A complicare la situazione vi è il fatto che il pattugliamento di questo quadrante marittimo sarebbe storicamente di competenza della Royal Navy, attività che negli anni è risultata sempre più difficile da onorare a causa del numero ridotto di navi che indebolisce la marina di Sua Maestà.

A Panama i Cinesi, di fatto, hanno messo le mani sul canale, causando serie preoccupazioni negli USA in quanto Pechino possiede, in teoria, le leve per chiudere il passaggio o per limitarne l’utilizzo a propria discrezione, soprattutto in caso di conflitto nel Pacifico, come nell’eventualità di una guerra per Taiwan. Non si può dimenticare che Panama e il suo canale sono considerati dagli USA un frutto della loro politica estera e militare, parte integrante delle articolate vicende della loro storia nazionale e dei loro vasti interessi economici globali. Recentemente sono stati notati i rapporti cordiali che Obama e Trump hanno intrattenuto nel corso dei funerali dell’ex-presidente Carter. Questo particolare ha sorpreso diversi commentatori, pensando che tali personalità dovessero trovarsi agli antipodi. In realtà le due presidenze in politica estera sono state assai simili, poste in diretta continuità e finalizzate ad un sostanziale ritiro statunitense dallo scenario internazionale.

In altri termini sia Obama che Trump sono stati guidati da subculture di stampo ideologico che traggono origine da contesti sociali differenti ma che alla fine, essendo entrambe dominate dal risentimento e dal desiderio di rivalsa contro qualuno, hanno prodotto lo stesso risultato, l’allontanamento degli USA dalle questioni globali, lasciando campo libero ad altri attori internazionali, quali Russia, Cina e Iran, ponendo così le premesse per gli attuali conflitti in corso.

Il Trump della “fase due”, dopo la stagione del “laissez-faire” che ha costituito una delle cause della presente situazione di diffuso conflitto globale, è passato a quella della “sindrome di accerchiamento” degli Stati Uniti e della conseguente necessità di creare uno “spazio vitale” più vasto tramite il quale operare da una posizione di maggior vantaggio contro tutti i nemici e i “falsi amici” degli Americani. Ovviamente non ci sono solo necessità strategiche dietro alle dichiarazioni espansionistiche trumpiane ma anche grandi appetiti nei confronti delle risorse e delle infrastrutture di quei Paesi che dovrebbero entrare nel progetto dei “Grandi Stati Uniti d’America”. In questo scenario appare evidente che gli unici che si avvantaggeranno da un tale caos internazionale saranno i Cinesi. Mentre l’Occidente e la Russia si combattono fra loro in Ucraina e altrove, la Cina sta economicamente legando a sé in maniera sempre più stretta il governo di Mosca e, contrariamente alle dichiarazioni ufficiali di “eterna”, leale e paritaria collaborazione, i Cinesi sognano il momento in cui potranno occupare la Siberia, mettendo le mani sia su ciò che ritengono storicamente come proprio che sul resto di una vastissima area ricchissima di materie prime. A fine di poter un giorno sancire sia il proprio controllo sulla Siberia che la propria egemonia globale la Cina si sta dotando, con l’aiuto moscovita (!), di un ampio arsenale nucleare che con il tempo surclasserà sia quello russo che quello euro-americano.

Appare ovvio che i conflitti degli “altri” e la debolezza russa in Asia stiano avvantaggiando Pechino, così come la divisione tra Europa ed USA che rischia di appalesarsi all’orizzonte.

Che un certo ordine internazionale stia scomparendo forse è testimoniato, oltre che dai conflitti in corso, dall’instabilità che ha improvvisamente permeato la politica sudcoreana, probabilmente un riflesso di come la “longa manus” americana inizi complessivamente ad arrancare, insidiata da altre potenze “rampanti” presenti nella regione.

A fronte di queste difficoltà la risposta di Trump sembra essere una rielaborazione della vecchia dottrina Monroe. Oltre a ciò Donald Trump, quasi fosse un novello Theodore Roosevelt, probabilmente intende utilizzare una riedizione della “politica del grosso bastone” sia nei confronti degli alleati che dei nemici. In particolare agli alleati verrà sostanzialmente chiesto di arrangiarsi o, eventualmente, a mo’ di rimborso spese, di “farsi rapinare” volontariamente, come con il gas, per cogliere così l’occasione di riequilibrare altresì la bilancia commerciale, per il cui riassestamento verrà comunque perseguita la politica dei dazi. Se l’Europa non vuole essere sottomessa e scomparire, demolita e fagocitata da forze che da più parti stanno cercando di minarne la stabilità e la stessa esistenza, dovrà dotarsi di una vera forza di difesa comune, nonché di un ombrello di deterrenza nucleare autonoma alla pari, se non superiore a quello delle altre potenze atomiche. Solo in questo modo l’Europa potrà sperare di sopravvivere alle tempeste che si stagliano all’orizzonte comunitario.

Recentemente il ministro degli Esteri francese Barrot ha diffidato il presidente Trump dall’intraprendere una qualunque azione che possa portare ad una violazione dei confini dell’Unione Europea, sottolineando il fatto che si stia andando verso un mondo dove sta tornando in auge la legge del più forte. Sulla stessa linea la portavoce del governo francese Primas, la quale ha aggiunto che ora più che mai occorre uscire da una forma di ingenuità e procedere ad un riarmo dei Paesi europei. Vedremo pertanto se alle parole si passerà ai fatti, sempre che non sia troppo tardi per poterlo fare.

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