Dal nazicapitalismo sorgono scenari di guerra

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Di P. Lumumba

La sua data di nascita è il primo marzo 2018 e il suo ostetrico è stato the Donald: con la minaccia di aprire una guerra commerciale contro la Cina, dopo qualche settimana seguita dalla minaccia di bombardare in Siria. Ma la situazione di crescente instabilità e il suo dar luogo al nazicapitalismo incubava da molto e la sua genitrice è da ricercarsi nella degenerazione sofferta dagli Stati Uniti in particolare dall’epoca della guerra in Vietnam. Gli USA sono sempre stati coscienti che non avrebbero mai vinto quella guerra, ma al complesso dell’industria bellica essa ha fatto tanto comodo: un enorme affare. Che è continuato poi con le guerre in Medio Oriente, in Africa, Asia, Centro America. Con l’attuale guerra in Yemen, grazie alla quale Trump ha ottenuto in Arabia il più grosso contratto di vendita di armi mai registratosi al mondo. Ma l’economia di un paese non può reggersi solo sulle armi e sulle guerre, pur combattute lontano dal proprio territorio. L’economia USA si è sviluppata sul piano dell’astratta finanza. Dopo il depegging del dollaro dall’oro (agosto 1971) gli USA hanno attivato il riciclaggio dei petrodollari con l’Arabia Saudita e hanno invaso il mondo di dollari e da allora sono campati di rendita producendo cartamoneta e importando tutto ciò di cui avevano bisogno. Ma questo ha depresso la capacità produttiva interna e si è riflesso sulla progressiva riduzione della classe media e sull’impoverimento della classe bassa. L’economia di un paese non può reggersi solo sull’astratta finanza. L’agricoltura americana è molto forte, la più forte del mondo. Esporta prodotti agricoli in Egitto, che un tempo era il granaio del Mediterraneo (all’epoca dell’antica Roma) e in Cina, che ha molte bocche da sfamare. Ma i coltivatori americani sono impoveriti, isolati nelle loro enormi estensioni di terreno che lavorano con pesanti macchinari. Sono la categoria nella quale maggiore è il tasso di suicidi. Un paese non può reggersi se comprime in tal modo i livelli di vita del gruppo sociale più importante per la propria sopravvivenza: coloro i quali producono cibo (non possono dipendere solo dalle importazioni delle multinazionali degli alimenti che producono a prezzi da fame in America Latina e Africa). Dalla fine degli anni Sessanta del ‘900, gli investimenti per la ricerca scientifica e tecnologica sono stati ridotti in USA. I miliardi di dollari spesi per il progetto Apollo e la conquista della luna sono parsi soldi buttati al vento, per quanto praticamente tutti gli avanzamenti tecnologici attuali siano figli di quell’impresa, che inoltre accendeva l’immaginazione delle persone, dando l’idea che si fosse proiettati verso un futuro di conquiste spaziali, non di conflitti terrestri. La cultura generale, diffusa tra la popolazione statunitense è diminuita. Studiare è diventato sempre più costoso. Anche questo ha impoverito la popolazione e sfilacciato la classe media. Dalle masse di disillusi è venuto il sostegno ai reboanti proclami di Trump: più o meno come dalle masse di tedeschi impoveriti e frustrati provenne il sostegno al movimento nazista tedesco nel 1933. L’emotività cerca rivincita possibilmente contro un nemico esterno: a prescindere dal fatto che sia veramente quello il nemico. Trump è il frutto di questa degenerazione americana e della sua conseguente ricerca di un capro espiatorio. Così a marzo Trump ha voluto minacciare di dichiarare, coi suoi mezzi extraufficiali fatti di proclami via twitter, guerra commerciale contro la Cina. Il parallelo ritorno di scontro attorno alla Siria può leggersi come fenomeno collegato. Perché ormai si sta saldando un’alleanza strategica tra Russia e Cina: come acutamente aveva previsto Orwell nel “1984”, delle tre potenze mondiali se ne associano volta a volta due contro l’altra. Sino a non molto tempo fa USA e Cina erano unite nel contenere la Russia: furono Mao e Nixon ad aprire quest’alleanza tramite la diplomazia del ping pong. Oggi una Russia rinata con Putin torna comoda alla Cina, vuoi perché fa parte del continente eurasiatico sul quale questa si sta estendendo a gran velocità, vuoi perché dispone di armamenti che le mancano e che le sono assolutamente necessari per fronteggiare la minaccia bellica statunitense. E alla Russia, che gli USA e la UE hanno voluto isolare, è necessario il sostegno della maggiore economia del mondo. Un tempo gli USA erano il campione della democrazia, ma ora sono diventati una minaccia per il resto del mondo: si sono fatti sopraffare dal cancro chiamato “libero mercato”, e ne sono stati fagocitati. Così se il XX secolo ha conosciuto i disastri del nazionalsocialismo, nelle sue varie declinazioni (inclusa quella sovietica), il XXI secolo sembra correre verso nuovi disastri da nazionalcapitalismo: un nuovo mostro che va contro natura. Perché da sempre, fin dagli albori della civiltà, commercio e attività economica non conoscono frontiere, anzi, le aprono. Oggi invece, per la prima volta trovandosi di fronte a un potere economico che lo soverchia, il capitalismo statunitense ricorre all’uso della forza per cercare di sopravvivere: questo il senso della guerra commerciale anti cinese minacciata da Trump, e questo il senso delle altre avventure belliche alle quali si mostra prono il gigante occidentale. Trump, venuto alla ribalta come l’eroe dell’anti establishment, in realtà essendo soltanto un frutto degli aspetti peggiori di questo, sin dai suoi primi balbettii sul proscenio di Washington ha minacciato la Cina: prima abbracciando platealmente la causa taiwanese e poi gettandosi nello scontro a cornate col dittatore nordcoreano Kim Yong-un. Il suo grido è stato subito “guerra”, come se la diplomazia dovesse essere erasa dalla tavola dei rapporti internazionali. L’economia statunitense, divenuta asfittica, non sembra capace di ricorrere ad altro che al verbo bellico: è questo il senso del suo nazicapitalismo. La Cina per lei è la minaccia maggiore perché, se quanto a Pil questa la tallona, in realtà l’economia reale cinese è già molto più forte di quella americana, divenuta pressoché inesistente grazie al peso preponderante della finanza pura. E se sul piano tecnologico sinora gli USA hanno mantenuto un vantaggio sul resto del mondo, ora anche su questo terreno la Cina avanza a grandi passi. Per esempio, nel campo della robotica gli investimenti cinesi sono alti, e forte è l’attenzione verso i computer quantici, le cui capacità operative saranno incommensurabilmente maggiori di quelle dei computer sinora conosciuti, tali da poter soverchiare e controllare i sistemi attuali. Lo stato cinese sta investendo dieci miliardi di dollari per costruire un Laboratorio nazionale per le scienze dell’informazione quantica in Hefei, nella provincia di Anhui: una specie di equivalente della NASA nel campo dell’intelligenza artificiale (dovrebbe diventare operativo nel 2020). La cosa ovviamente è vista come una minaccia da gruppi come l’International Building Machines Corporation, che è uno dei gangli maggiori di quel che i complottisti di ogni colore chiamano il “deep state” americano. (Che cosa sia questa società informatica è stato espresso in via semimetaforica da Stanley Kubrick in “2001 Odissea nello Spazio”: il computer inebriato di potere che cerca di far fuori l’umanità in viaggio nello spazio è HAL, sigla composta dalle lettere che precedono IBM). E attraverso la sua politica estera incentrata su One Belt, One Road, la Cina sta intessendo rapporti di collaborazione con paesi di tutto il mondo, ma in particolare con i suoi vicini: inclusi quelli che nel recente passato le son stati nemici, ovvero Vietnam e India. Non solo, anche col Giappone, che è stato il suo principale nemico storico (vedi l’invasione in Manciuria nel 1931 e gli eccidi che ne seguirono) la Cina sta stabilendo buoni rapporti. La Cina in realtà non è una potenza bellica, e questo è testimoniato dal fatto che sinora impressionante è stato il suo sviluppo tecnologico e industriale, ma molto limitato quello militare. Ha pensato alla crescita pacifica dell’economia, mirando anzitutto a uscire dalla condizione di povertà. Malgrado Mao sostenesse che il potere riposa sulla canna del fucile, la sua tradizione culturale, taoista e confuciana, è fondamentalmente pacifica. Anche per questo ha impostato i suoi rapporti esteri sulla collaborazione per fini economici condivisi o condivisibili con altri paesi. Ora, sentendosi minacciata, sta cercando di correre ai ripari e si sta armando con l’aiuto russo; sta sviluppando una flotta aerea da combattimento, nel 2017 ha completato la sua prima portaerei e nel 2018 ha preso a costruire la seconda. Ma le ci vorrebbe molto tempo per mettersi alla pari con gli USA. Per questo nel corso degli anni passati, crescendo la condizione di competitività economica con gli USA, è proporzionalmente cresciuta la tendenza ad avvicinarsi alla Russia sul piano militare. Cosa che è stata ribadita nel corso della settima Conferenza sulla Sicurezza internazionale svoltasi a Mosca il 4 aprile 2018, pochi giorni dopo le minacce di guerra commerciale profferite da Trump: il ministro della Difesa cinese Wei Fenghe ha bensì ribadito, come fa sempre la Cina nei consessi internazionali, la volontà di collaborare per lo sviluppo economico e per la pace, ma ha anche evidenziato che l’intesa con Mosca è solida come una roccia e che Russia e Cina assieme sono pronte a rispondere agli USA. Quando Putin a inizio del marzo 2018, in piena campagna elettorale, ha annunciato nuove portentose armi nucleari che, montate su missili da crociera di nuova concezione, sarebbero capaci di colpire ovunque nel mondo, probabilmente ha inteso non solo avvertire gli statunitensi, ma anche rassicurare i suoi amici cinesi. Reciprocamente, agli USA può interessare cercare di minare la Russia per lasciare senza la sua protezione militare la Cina: anche da qui proviene il continuo rinfocolamento della crisi siriana. Quando all’inizio di aprile Trump minacciava di intervenire in Siria, la Cina preparava la maggiore manovra navale mai tenuta vicino a Taiwan, isola che ritiene parte del proprio territorio e che intende recuperare. I due punti di crisi, Siria e Taiwan, sono strettamente legati. Gli USA non hanno interessi strategici diretti in Medio Oriente: vivono benissimo col loro petrolio autoctono da scisto e non hanno più bisogno di quello saudita. Ma hanno bisogno di mantenere i sauditi sotto il loro controllo. Tanto più ora, perché questi stanno cominciando a vendere petrolio alla Cina, non in cambio di dollari, ma di yuan, ovvero di “petroyuan”. E lo sviluppo internazionale dello yuan come moneta di scambio in queste condizioni significa, alla lunga, la morte del dollaro. E se muore il dollaro, dopo che gli USA hanno da tempo ucciso la loro economia reale, non gli resta più quasi nulla. Se non il potere militare. Il nazicapitalismo statunitense è votato alla guerra perché si è tagliato quasi tutti i ponti alle spalle. Riuscirà il mondo a convincere quel paese dal grande passato e dal misero presente a rinunciare ai toni forti, e a ritornare sulla strada dello sviluppo economico pacifico? La risposta sta nella saggezza che sapranno mettere in campo gli alleati della NATO, nella capacità di resilienza di una politica americana ragionevole e non fondata sull’uso della forza bruta, nella disponibilità di Russia e Cina di offrire al mondo una via di uscita dalla crisi più attraente del conflitto. Per ora Trump ha abbaiato, non ha ancora morso. Il tempo per manovrare tuttavia non sembra molto.]]>

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