FRONTIERE

Da #Craxi a #Renzi. La via del #crac?

di P. Lumumba

C’era una volta Craxi. Ne resta la fama di personaggio prepotente, legato alla corruzione politica italiana. E dopo di lui del Partito socialista italiano sono rimasti lacerti: stracci. Nel 1976 il PSI era in crisi. Le correnti interne non si mettevano d’accordo e così si puntò su una figura di transizione, che non scontentava nessuno perché non sembrava una minaccia per alcuno: Benedetto Craxi detto Bettino.

Doveva essere un segretario di transizione. Ma Craxi aveva capito dove tirava il vento: la “rossa primavera” era tramontata e sorgeva una nuova luce: quella delle televisioni private. La sua alleanza con Berlusconi, di cui tanto era amico che fu testimone alle di lui seconde nozze, lo convinse che la politica diveniva spettacolo. E lanciò il giovanilismo: nel PSI fece la rivoluzione dei quarantenni. E i dirigenti Psi presero a circolare in BMW. Nuovi volti scalarono gli scranni del partito, a partire da Claudio Martelli, che gli sarà fedele scudiero per anni. L’irruenza di Craxi prese il nome di decisionismo, e quando nel 1983 prese il potere – primo presidente del Consiglio socialista dell’Italia repubblicana – questa divenne la cifra della sua politica. E il PSI, che era stato tanto tempo prima il partito dei lavoratori, divenne il partito delle banche. Giocando d’abilità nelle pieghe dell’alternanza impossibile tra i due grandi partiti, DC e PCI, riuscì a ottenere una caterva di cariche nel mondo bancario. E mentre cresceva il suo potere, cresceva quello di Berlusconi. Fu Craxi infatti a togliere le manette che alcuni pretori nel 1984 avevano posto alle televisioni del Cavaliere, grazie a una legge ad hoc, ad televisionem per così dire. A quell’epoca Berlusconi era nella lista della cosiddetta “P2”, l’oggetto misterioso che aleggiò sulla politica italiana e dietro il paravento della difesa anticomunista fu veicolo per tanti intrighi in campo politico, economico, finaziario, editoriale. Craxi era giovanilista, era antiideologico, era capace di decidere in fretta, introdusse il liberismo nel mondo socialista.

Tanto liberista che in tre anni di governo raddoppiò il debito pubblico italiano. Dal ’46 all’83 gli innumerevoli governi democristiani lo avevano portato a 234 miliardi di euro (valuta del 2004, dati tratti da Wikipedia). Craxi in tre anni -miracoli del decisionismo!- lo portò a 522 miliardi di euro. Più del doppio. Dal 70% al 90% del Pil. Un enorme successo. Infatti tutti lodavano la sua politica economica, meritevole tra l’altro di aver abolito la “scala mobile”. Privatizzare i profitti, pubblicizzare le perdite. La strategia era nota. Il socialismo in BMW funzionava. Ma c’era qualcosa che non andava: la corruzione. Venne Mani Pulite, Craxi fu pluricondannato. La sua difesa: “lo fanno tutti” non fu ascoltata e coraggiosamente si ritirò in esilio. L’unico a esiliarsi per sfuggire al giudizio.

Intanto il più era fatto. S’era anche deciso, grazie all’imbeccata portata da Martelli dopo una riunione all’Internazionale Socialista in Germania, di scatenare le paure popolari verso il nucleare e di chiudere questa industria che Enrico Mattei aveva voluto per rendere l’Italia indipendente dalle compagnie petroliferi angolamericane. Alla crescita del debito pubblico si sommò l’aumento del deficit energetico. La deidustrializzazione prese il largo. L’industria non serviva più: c’erano, ben assestate al potere, le televisioni di Berlusconi. Era finita l’epoca industriale. Si apriva l’epoca dello spettacolo. L’Italia era tutta un bello spettacolo. Finì il PSI, ma cominciò Forza Italia: l’era berlusconiana.

C’era una volta Zapatero: questo era in Spagna però. Ne resta la fama di persona inconcludente, ma sotto i cui auspici è scoppiata la bolla immobiliare e la disoccupazione è arrivata alle stelle. E dopo di lui il PSOE è rimasto affossato. Nel 2000 era già in crisi. Le correnti interne non si mettevano d’accordo e così si puntò su una figura di transizione, che non scontentava nessuno perché non sembrava una minaccia per alcuno: José Luis Rodrigo Zapatero. Doveva essere un segretario di transizione. Ma nel 2004 vinse le elezioni.Un volto nuovo, giovane, simpatico. E fece il primo governo spagnolo con il 50% di donne. Quattro anni più tardi un altro suo governo incrementò il numero di donne: 9 ministre e 8 ministri. Più politically correct di così… Con Zapatero il debito pubblico è prima diminuito rispetto al Pil e nel 2007 arrivò al 35%. Ma poi è cresciuto: nel 2011 è arrivato al 70%. Ha preso un sacco di decisioni che hanno fatto storia, come quella sulla difesa dei diritti dei primati. Ma tra gli umani la disoccupazione è cresciuta: nel 2004 era di circa 2 milioni di persone, nel 2012, alla fine dei due governi Zapatero, è arrivata a quasi 4 milioni e mezzo, con percentuali di oltre il 40% di giovani disoccupati. Da quando se n’è andato, il PSOE non s’è ancora ripreso, malgrado i fallimenti del governo del Partito Popolare di Rajoy, che gli è succeduto e ha continuato ad aumentare il debito pubblico senza alcun effetto sull’occupazione.

C’era una volta Renzi. Nel 2013 il PD era in crisi. Incalzato dai grillini, reduce da mille battaglie coi berlusconiani che in vent’anni non solo non è riuscito a scalzare dal potere, ma non ha arginato in nulla su temi come il conflitto di interessi, la trasparenza, l’esportazione di capitali, le leggi ad personam… E nel bailamme degli scontri interni un bel giorno arrivò Matteo Renzi, sindaco fiorentino. Aveva la prepotenza di Craxi e l’inconcludenza di Zapatero, così prese in mano il partito e, poiché l’Italia è una repubblica fondata sul partito, ipso facto prese in mano il governo sottraendolo al suo compagno di partito Enrico Letta. Annunciando una rivoluzione: giovani a tutto spiano. E fece il primo governo col 50% di donne e con un’età media la più bassa della storia. Più politically correct di così… I problemi erano la corruzione diffusa, la disoccupazione diffusa, la fuga dei cervelli e la fuga delle aziende. E Renzi prese a parlare di giovanilismo. Più politically correct di così…

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