L’augurio è che la mostra che la città di Rovigo – grazie anche alla sua istituzione culturale più prestigiosa e antica, l’Accademia dei Concordi – dedica ad una delle sue cittadine più illustri, Cristina Roccati, consenta ai visitatori anche di soggiornare in quell’enigmatica, splendida (ma di uno splendore tutto da cercare, pazientemente, nelle pieghe della storia e del presente), veneta cittadina di confine.
Singolarmente, per chi vi giunga dopo aver visitato, qualche giorno prima, Gorizia, essa segna quasi un confine carsico meridionale, anche se qui non dominano le colline, o le doline, e il paesaggio, pur benedetto da una mare non distante ma quasi intoccabile, invisibile ché non vi sono rilievi, è tutto immerso nell’uniformità padana; e i fiumi stessi, dall’Adige al Po, sono differenti da Isonzo e Tagliamento e Natisone, sembrano più torbidi e lineari e vasti, ma anch’essi, e il Po soprattutto, volti a disegnare confini naturali poi divenuti politici, e culturali. Nel bene, e nel male. Una linea carsica separa Rovigo da Ferrara, in fondo, forse il Po, forse il rapporto differente con la Chiesa, padrona delle terre del Sud, guelfe da sempre, forse il peso letteralmente di una Serenissima che è modello, e leggenda nera.
Cristina Roccati, filosofa, fisica, poetessa, terza donna laureata al mondo, “principe”, ovvero presidente, dell’Accademia dei Concordi della sua città natale. A giudicare dai ritratti, anche bella, di quella bellezza soave delle pensatrici, sognatrici che hanno saputo dare una disciplina e un indirizzo al loro fertile mondo interiore. Rare coloro che lo fanno.
Forse più di Laura Bassi, di Elena Cornaro Piscopia – la prima donna laureata al mondo, che non resse la fatica degli studi e morì subito dopo l’agognato titolo – perfino di Maria Gaetana Agnesi, Cristina Roccati incarna quella figura che poi, ma con lieve intonazione spregiativa, fu poi chiamata “femme savante”. Era ben più di una “savante”, era una scienziata fatta e finita. Nata il 24 ottobre 1732, morta, sempre nella sua città, il 16 marzo 1797, pochi mesi prima della fine della Serenissima, che l’aveva veduta tra le sue glorie: una vita per la letteratura, e la scienza. Il Maggior Consiglio si riunì per l’ultima volta il 12 maggio, dichiarandosi sciolto e ponendo fine, ingloriosa, a 1100 anni di dominio, e indipendenza. La miserabile esperienza della Municipalità consegnò Venezia agli Austriaci, e Jacopo Ortis al suicidio (letterario) sui Colli Euganei. Questo Cristina non vide. Per fortuna.
La mostra a lei dedicata, nata da un’idea di Sergio Campagnolo e accompagnata da un ricco catalogo, curato come la mostra da Elena Canadelli, è visitabile gratuitamente fino al 21 aprile a Palazzo Roncale, elegante dimora nei pressi dell’Accademia dei Concordi, da visitare peraltro anche per le opere d’arte in essa permanentemente custodite, tra cui una tela che ricorda la conquista della Morea da parte del Morosini, con tanto di coppia di elefanti pliniani ed esaltazione di virtù civili e militari, nel “visibile parlare” (padre Pozzi ne avrà scritto) dell’ampia didascalia del quadro.
Benemerita la Cassa di Risparmio e il Comune di Rovigo, che hanno reso possibile una mostra ben concepita, non ampia ma dettagliata. ove alle tappe della vita della Roccati, intensa, tesa come una corda di violino tra i poli centripeti del sapere d’allora, nientemeno che Bologna e Padova, s’affianca un’essenziale cronologia di storia della scienza: dall’edizione di Algarotti del 1737, ad opere come le lezioni di fisica sperimentale dell’abate Nollet tradotte a Venezia nel 1746. Oltre a strumenti scientifici diversi. Si ricorda Casanova, nel terzo centenario della nascita. Nel 1772 difese in Lana caprina il diritto e le capacità allo studio delle donne, che riconosceva capaci come gli uomini, con argomentazioni solide. «La condizione e l’educazione della donna sono le due cause che la rendono diversa da noi», scrive Giacomo, precisando che «l’uomo e la donna pensano allo stesso modo». Lo fa scherzosamente, in fondo usa l’argomento singolarissimo del licantropo per dire che anche alcuni uomini hanno il loro “periodo”. E che non esiste una dimensione “uterina” della donna. Ma si era ormai nel Settecento avanzato.
Siamo nel Settecento dunque e la donna pian piano esce dall’ombra, in cui per secoli è stata confinata. Laura Bassi si laurea a Bologna il 12 maggio del 1732, e ottiene la cattedra il 29 ottobre dello stesso anno, in fisica sperimentale: unica donna nell’antichissimo ateneo. Allestisce nella propria casa un celebre laboratorio. Nello stesso anno, Cristina nasce, a Rovigo, da agiata famiglia, poi caduta in disgrazia. Il 5 maggio 1751 la Bassi accompagna nel giubilo Cristina alla sua cerimonia di laurea: sempre a Bologna, ma Venezia e Padova, e Rovigo naturalmente, vivono l’evento con entusiasmo. D’altra parte, già nel 1723 si discuteva all’Accademia dei Ricovrati di Padova – diverrà poi la Galileiana, tuttora attiva – se le donne dovessero essere ammesse all’istruzione superiore, e alle scienze. Nel 1678 si era laureata in filosofia a Padova Elena Cornaro Piscopia, ma l’antico ateneo aveva poi proibito l’iscrizione alle donne. Peccato. Cristina nasce poetessa, letterata, erudita in lingue classiche. Poi il passaggio alla scienza. Non una mossa illogica, o singolare. Sempre nei domini veneti la tenterà Diamante Medaglia Faini, in quel di Salò, oggetto delle precise attenzioni della maggiore storica della scienza al femminile in attività, Paula Findlen, di Stanford. Il testo in questione, ove si cita spesso la Roccati, è leggibile in rete: https://web.stanford.edu/class/history213/SiCcopyedited.htm.
Un filo sottile lega tra l’altro il prestigioso ateneo di Stanford con l’iniziativa rodigina. Paula Findlen ha infatti curato nel 2024, presso la Green Library, una mostra sulle donne scienziate nella storia. Embodied Knowledge: Women and Science before Silicon Valley dedica, e come potrebbe essere altrimenti, lo spazio dovuto alle scienziate italiane. Un bel catalogo accompagna anche questa mostra. La Findlen ha dedicato una vita di studi a mettere in luce la scienza in Italia nei suoi rapporti col genere. Non che il secolo dei Lumi contasse un numero altissimo di donne tra le scienziate; ma a ben vedere nel secolo successivo, del nazionalismo e del positivismo, esse sembrano essere ancora meno. Solo nel Novecento torneranno ad affermarsi, fino a raggiungere la posizione che ora hanno. Pari, quasi pari? Difficile dire. Certo nel Settecento non era facile, per una donna, essere scienziata.
Prendiamo la più celebre e prolifica di esse. Émilie du Châtelet vive vita tragica, intensissima, assai più delle sue corrispondenti italiane. Muore di parto al quarto figlio, nato fuori dal matrimonio, non ha che 43 anni ma era età liminare, allora. Il figlio le sopravvive qualche mese. La traduttrice di Newton, l’amica intima di Voltaire fu forse la prima scienziata, o divulgatrice, ad essere ricordata ampiamente. Fu filosofa acutissima. Volle anche essere moglie e madre e amante. Tra le infinite opere, scientifiche e biografiche, su di lei, spicca quella di Judith Zinsser, Dame d’Esprit: A Biography of the Marquise du Châtelet, (New York, Viking, 2006) che almeno in parte sostituisce il classico lavoro della Badinter, Émilie, Émilie: l’ambition féminine au XVIIIe siècle (Flammarion, Paris, 1983).
Ancora non esiste una monografia esaustiva che renda veramente giustizia alla Roccati. Il catalogo di questa mostra almeno in parte supplisce alla mancanza. La voce a cura di Miriam Focaccia sul Dizionario biografico degli italiani è ricca e completa, così come l’articolo su una “newtoniana dimenticata” del 1999 della stessa Findlen. Una bella introduzione alla Roccati è quella di M.L. Soppelsa – E. Viani, Dal newtonianesimo per le dame al newtonianesimo delle dame, in Donne, filosofia e cultura nel Seicento, a cura di P. Totaro (Roma 1999). Ancora inedite ed esposte parzialmente qui le sue 51 lezioni tenute presso i Concordi, dal 1751 al 1777. Fisica, in tutte le sue declinazioni, con qualche omissione, ad esempio la teoria dei fluidi, il calcolo infinitesimale (nei suoi aspetti applicativi). Dall’ottica alle maree, il resto c’è. L’immane opera di demolizione, cauta e circospetta, dell’aristotelismo patavino, e in parte bolognese, passa anche da qui. La lezione sulle maree, qui in parte visibile, è del 1769: il problema dell’acqua alta è ricorrente, a Venezia, in quegli anni si stanno completando, lunga impresa pubblica, i Murazzi. Coronelli li aveva progettati nel 1716. Verranno terminati nel 1782.
La sua grafia è chiara, così come i suoi disegni: una mente lucida, ricettiva, capace di problematizzare la teoria, perché forte di una preparazione umanistica singolare. Newton era teologo, in fondo. Leibniz, umanista purissimo. Il discorso fallace delle “due culture” nel Settecento non vige.
Lascio Cristina tra i suoi strumenti e i suoi libri. Figlia di quelle “venete sponde” “vaghe e gioconde” del componimento che dedicò ad un’altra donna eccezionale nel crepuscolo della Serenissima: Caterina Dolfin, moglie di Andrea Tron, procuratore di San Marco. Caterina era riuscita – tra le altre sue imprese – a far collocare nel palazzo del Bo, a Padova, la sede principale e più antica dell’Ateneo, la statua di Elena Cornaro Piscopia. Ancora lì oggi. Per fortuna.
Rovigo, fascino di antichi e recenti palazzi, esempi di liberty e di architettura fascista tutti da riscoprire, terra di confine, terra di martiri e abbandoni e rovine. E non solo Matteotti la cui ombra aleggia ovunque, anche dopo la fine delle celebrazioni del centenario del suo assassinio, appena concluse. Città percorsa da una vena di dolore. Da decadenza talora percepibile. E in cui alla scienza si è guardato spesso col rispetto che si deve ad una dea salvifica. Come all’umanesimo, al sapere. La statua monumentale e marziale di Garibaldi nella piazza omonima porta un’incisione singolare: “l’umanesimo suo ideale lo ebbe vindice degli oppressi nelle lontane Americhe…”.
Basta indugiare nei pressi della stazione ferroviaria, luoghi non ameni, in parte in abbandono, per comprendere molto della Rovigo odierna. I giardini, tristissimi, complice anche il grigiore di un giorno freddo di gennaio, sono dedicati a Guglielmo Marconi. Non stupisce, è un bolognese. Il viale omonimo ha una vecchia insegna metallica, d’epoca fascista, corrosa dal tempo, dalla ruggine quasi secolare. La prima G del nome è corrosa, del tutto. La I finale ricavata per incisione nella ruggine del bordo. Marcon, dunque, reso veneto dal disfacimento. Tutto questo assume un senso se si guarda al monumento della piazza della stazione stessa, che ricorda quel che la scienza allora (ma può farlo, forse, oggi?), non poteva né prevedere, né veramente evitare, e neanche curare, del tutto. L’alluvione del novembre 1951. Oltre 100 i morti, in una terra allora davvero povera. Ma 800.000 senza tetto, un disastro immane. La scienza, dunque, quasi viene invocata come genio salvifico.
I giardini per Marconi, in pietoso abbandono, sono a pochi passi dal monumento, spettrali anch’essi. Poi un altro monumento nei giardini evoca marziali figure femminili, vittorie alate, che nessuno guarda più, dimenticate e sporche. Un monumento, sormontato da tristissima aquila, ai “caduti di tutte le guerre”, data 24 maggio 1974, per i sessant’anni dunque dell’entrata rapidissima dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Ma anche dedicato ai “fanti d’Italia”, per singolare contraddizione. Chissà chi la noterà. “Per se fulget”. Il motto della fanteria, coniato da D’Annunzio. Campeggia su un lato del parallelepipedo. L’immaginifico non mise Rovigo ma Ferrara tra le città del silenzio: forse perché Ferrara risplendette di gran luce, come Pisa e Ravenna, e le altre, almeno una volta nella propria lunga storia. Rovigo – forse – no. Ma non è detto che non abbia i propri momenti di gloria futura, o non li abbia avuti. Certamente molto è stato fatto, per la sua economia, e la sua immagine. E molto si farà. Un cantiere aperto.
E in fondo i sinuosi versi del Vate ben s’adattano anche a Rovigo, a saperli legger come si deve:
Loderò le tue vie piane,
grandi come fiumane,
che conducono all’infinito chi va solo
col suo pensiero ardente,
e quel lor silenzio ove stanno in ascolto
tutte le porte
se il fabro occulto batta su l’incude,
e il sogno di voluttà che sta sepolto
sotto le pietre nude con la tua sorte.
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