di Carlo Giantomassi
Quando arrivammo a Baghdad nel 2004 era da poco avvenuto il tragico attentato di Nassiriya. Tanti carabinieri erano morti e ovunque si respirava il clima della guerra. Eravamo ospitati in locali di pertinenza dell’ambasciata italiana e ogni giorno venivamo scortati sino al Museo nazionale iracheno. Inviati dall’Istituto Centrale del Restauro, il nostro compito era non solo di restaurare le sale espositive e le opere d’arte, ma soprattutto di istruire il personale locale sulle tecniche più avanzate per il recupero e la conservazione di statue, oggetti, pitture, così che si potesse rimediare ai danni sofferti a conseguenza dell’arrivo delle truppe occidentali nella primavera dell’anno precedente.
Com’è noto era accaduto che, approfittando della confusione causata dai combattimenti, nel lasso di pochi giorni quel museo, tra i più importanti al mondo per le tantissime testimonianze della cultura mesopotamica di cui disponeva, alcune risalenti a oltre tremila anni prima dell’era cristiana, era stato saccheggiato.
Molte delle opere erano state rotte, molte erano state sottratte per essere vendute sul mercato nero. Mentre lavoravamo si sentivano passare gli elicotteri, si udivano gli echi di bombe che esplodevano nelle vicinanze. Siamo rimasti poche ma intense settimane, e resta impresso il ricordo dell’impegno dei funzionari locali per ricostruire con pazienza i tanti oggetti che erano stati danneggiati da fanatici nel furore di pochi giorni.
Con mia moglie, la compianta Donatella Zari, eravamo abituati a lavorare in Paesi lontani, e spesso problematici, come Colombia, Kosovo, Tibet, Afghanistan e tanti altri. Ma in quella circostanza ci trovammo in condizioni decisamente inconsuete: il conflitto ancora non era completamente sopito. Eppure, lì come in tanti altri luoghi, si notava il desiderio di ricostruire, di recuperare la memoria, di non arrendersi di fronte allo sfregio della violenza.
Come del resto era accaduto anche in Italia dopo la seconda guerra mondiale, quando tanto si dovette lavorare per recuperare opere d’arte danneggiate dalle bombe. E guarda caso, proprio in quello stesso periodo fummo chiamati a restaurare anche il ciclo di affreschi del Mantegna nell’abside della Cappella Ovetari a Padova, che era stata danneggiata dai bombardamenti avvenuti nel 1944 e non era ancora stata ripristinata. I lacerti di affreschi sopravvissuti erano stati ricoverati a Roma, nell’Istituto Centrale del Restauro all’epoca diretto da Cesare Brandi. Solo grazie al contributo erogato dalla locale Cassa di Risparmio all’inizio del nuovo millennio fu possibile riportarli a Padova e recuperare il recuperabile di quell’opera. Ci lavorammo insieme con Gianluigi Colalucci, noto per aver restaurato gli affreschi michelangioleschi della Cappella Sistina in Vaticano. L’opera fu completata solo nel 2006: 72 anni dopo il momento in cui la cappella patavina era stata colpita dalle bombe. C’è sempre questa drammatica differenza: la distruzione avviene in pochi attimi, mentre gli interventi per ricostruire, restaurare, recuperare richiedono preparazione, tempo e pazienza.
Penso a quanto trovammo in Afghanistan. Il museo di Kabul conservava molte statue di Buddha, di diversa dimensione, alte da pochi centimetri a oltre due metri. Erano state tutte ridotte in pezzi dalla furia iconoclasta dei talebani che conquistarono il potere dopo la cacciata dei sovietici. Bisognava ricostruirle, ma non c’erano fotografie che potessero aiutare, avevamo solo i pezzi rotti. Era necessario osservare le venature dei marmi e le forme delle fratture per trovare il modo di rimettere assieme i frammenti.
Ci vollero alcuni giorni per orientarci, sinché in quel generale bailamme non riuscimmo ad acquisire una certa dimestichezza nell’individuare le parti da rimettere assieme. Restammo due mesi e anche in questo caso istruimmo il personale locale sui sistemi migliori per ripulire i materiali e per ricomporre l’integrità dei manufatti.
Ma tra le tante missioni compiute in Paesi lontani, la più difficile, e forse anche la più affascinante, è stata in Tibet: un piccolo tempio isolato, a 4100 metri di altitudine. Lo si poteva raggiungere solo a cavallo, si trovava non molto distante dal monastero di Palpung, presso la città di Babang. Questo era grande, importante, noto e facilmente raggiungibile, per cui le Guardie rosse maoiste l’avevano ampiamente deturpato, l’altro monastero invece, piccolo, nascosto e difficile da raggiungersi, era stato risparmiato dal vandalismo maoista: per cui era tanto più importante che si preservasse. In questo caso fummo chiamati da un’organizzazione geografica di Hong Kong, perché la struttura era stata danneggiato da un terremoto, e il tempio sarebbe crollato.
Bisognava salvare le pitture murali, risalenti al 1700. Intervenimmo in tre momenti differenti, nel corso di tre anni. Staccammo le pitture, le riponemmo e quando il tempio fu ricostruito com’era e dov’era, tornammo a ricollocarle. Nei periodi in cui soggiornammo vivemmo come i monaci buddisti, isolati dal mondo, mangiando solo riso.
A volte mi chiedo, che cosa accadrà delle opere che abbiamo restaurato? Vi saranno altri terremoti, altri conflitti che le metteranno a rischio? Che avverrà nel museo di Kabul, dopo il ritorno dei talebani? Ma penso ai tanti che hanno contribuito a ricostruire, riparare, ripristinare. La memoria viene sempre ripresa e portata avanti, come una lunga opera di tessitura che attraversa e vivifica il corso della storia.