FRONTIERE

Bernardini: il Nuovo Mondo e la “translatio” di Venezia

Di Alberto Castaldini

Nel Museo di Ca’ Rezzonico a Venezia è conservato un celebre affresco di Giandomenico Tiepolo. Dipinto nel 1791, è la sintesi di un’epoca di passaggio straordinaria e travagliatissima. L’opera ha un titolo emblematico: Il Mondo Novo. Su una fondamenta della città lagunare, una folla di curiosi si accalca attorno a una piccola costruzione in legno dove una lanterna magica, il “mondo nuovo” per l’appunto, proietta immagini di paesi esotici e lontani. La Serenissima è ormai giunta al tramonto, ma il popolo sembra noncurante della sua agonia. Il cielo chiaro è screziato da nubi, forse un’anticipazione d’autunno, e ciascuno aspetta il proprio turno per sbirciare l’ignoto. Il mare riempie il vicino orizzonte e così il viaggio resta sempre possibile.

Questa scena così vivida e realistica mi sembra un modo conveniente per presentare la terza raccolta di scritti sul Nuovo Mondo al di là dell’Atlantico che Paolo L. Bernardini, ordinario di Storia moderna all’Università dell’Insubria, genovese per nascita, veneto per elezione, ha voluto dedicare al pensiero politico e alla storia americana, lungo un arco temporale che inizia proprio nel secolo XVIII e giunge ai nostri giorni, nell’ultimo delicato cambio di presidenza statunitense. La mia scelta non è causale, perché l’opera di Tiepolo ci ricorda che il tramonto di Venezia corrispose all’alba degli Stati Uniti: destini opposti di due repubbliche oligarchiche, dalla simultanea, duplice aspirazione, sia protesa all’incontro con l’alterità, sia sovente ripiegata su di un isolamento ‘felice’.

Due i generi analitici della silloge: contributi accademici, che l’Autore ha voluto alleggerire in parte dall’apparato bibliografico per facilitarne la lettura, e recensioni. Ma l’impianto generale non corre affatto il rischio di apparire in qualche modo disorganico, perché Bernardini mantiene saldo il registro su di un vasto numero di figure, forme e paradigmi che costantemente riannodano un tessuto composito e nel contempo omogeneo. Del resto, che l’identità americana sia per sua natura multiforme ed eclettica non è certo un mistero: il Nuovo Mondo è stato più volte rifondato dai nuovi arrivati, confermando quanto Bruce Chatwin scrisse a proposito dell’Australia, mondo novissimo, in Le Vie dei canti: “I bianchi, per adattare il mondo alla loro incerta visione del futuro, continuavano a cambiarlo; gli aborigeni dedicavano tutta la loro energia mentale a mantenerlo com’era prima”. Quanto il grande viaggiatore britannico osservò per quelle antichissime popolazioni lo si può estendere ai nativi del continente americano, ed è lungo narrazioni e metafore di ordine antropologico e identitario che ho voluto leggere il volume di Bernardini.

Il tema dell’esplorazione è al cospetto dell’America ancora attualissimo. Questo perché la sua conoscenza è sempre legata a rinnovate scoperte, così come ri-scoperta fu quella colombiana, e ri-definizione fu quella del fiorentino Vespucci, giacché assegnare un nome, il proprio per giunta, diventato poi così evocativo, fu anzitutto significare quel mondo nuovo, connotarlo per le future generazioni che lo avrebbero abitato, attribuendo ad esse un’identità “aborigena” che in realtà apparteneva a quel mosaico etnico, esso sì autoctono, che erroneamente fu chiamato “indiano”. E America fu, anzi: Americhe, inizialmente popolate da due grandi migrazioni umane (attraverso la Beringia come, con ogni probabilità, anche dal Pacifico), poi secolare conquista e modellamento di un’Europa mai paga del suo ulteriore Drang nach Westen, timorosa forse di quell’oscurità che ad Ovest si delinea al termine del giorno e che per questo andava in qualche modo scongiurata migrando e possedendo.

Il volume di Bernardini, studioso del pensiero liberale ma – tengo a ricordarlo – anche storico dell’emancipazione ebraica moderna, nelle sue premesse geo-culturali, filosofiche e politiche, si sofferma ripetutamente sul dato identitario, terreno quanto mai accidentato se inteso in un fissismo esclusivista di per sé estraneo alla visione americana, nonostante recentissime manifestazioni di contrapposta, vicendevole intolleranza etno-culturale. L’America è in sé un variegatissimo prodotto diasporico, terra di approdo, di adattamento e di ri-modellamento di appartenenze, nello sforzo di conservare una loro specificità che in parte è reale e in parte illusoria. Mutazione, isolamento, selezione: categorie che hanno segnato anche l’antropologia e la genetica americana, dalla scuola pionieristica del grande Boas (tedesco-ebreo) a Weidenreich (anch’egli figlio della Bildung germanica) fino a L. C. Dunn (col suo allievo Dobzhansky), che nell’immediato secondo dopoguerra condusse ricerche sull’ereditarietà a Roma. Non a caso Dunn scelse di analizzare la comunità ebraica romana sopravvissuta alla deportazione dell’ottobre 1943, a suo avviso caratterizzata da un isolamento ritenuto millenario; e lui, genetista giunto da un mondo nuovo nel Vecchio continente mortalmente ferito, volle ri-definire la disciplina che pochi anni prima era diventata strumento biocratico, non solo discriminatorio ma anche tanatoforo. Bernardini osserva come Dunn contribuì, forse inconsapevolmente, a mettere in contatto un ebraismo antico, dagli orizzonti contenuti – quello dell’Urbe – con gli ebrei del nascente Impero globale. La pax americana passava infatti anche dal raggiungimento di traguardi scientifici e dalla loro divulgazione (si ricordi ad esempio la conversione missilistica di von Braun, padre delle rappresaglie volanti del Reich morente, per non parlare degli indispensabili vaccini d’oltreoceano).

Questa ridefinizione della storia, che non può ignorare l’uomo ma comprende anche la natura con i suoi fondamenti, diremmo gli arcana, è profondamente associata alla Global History, debitrice senza dubbio alle piste inesplorate del West storiografico nonché oggi quanto mai rispondente a suggestioni di stringente attualità come la questione climatica. Suscitano grande curiosità le pagine dedicate da Bernardini alla criptozoologia negli States, dove l’uomo è protagonista solo comprimario, sia per la sua osservazione di luoghi non ancora antropizzati, sia per la sua presenza invasiva (e dannosa) negli habitat da lui modificati. Se la storia (compresa quella dell’uomo) è oltre il tempo, in una prospettiva inevitabilmente escatologica e in ogni caso risolutrice, la Global History “made in Usa” non si sottrae nemmeno al confronto con l’ipotesi più funesta, che è quella della nostra estinzione. Zivilisation rassegnata quanto mai fantasiosa, cui è debitore il cinema di Hollywood: ‘stracult’ il film Planet of the Apes (1968), dove il modello platonico in una futura, alternativa società di primati evoluti trova rigorosa applicazione. Ciò che Bernardini annota, ripercorrendo tappe e approdi della criptozoologia americana (Ley, Mackal, Hurn), debitrice senza dubbio all’Aldrovandi, ma soprattutto erede di quella trattatistica sulla fauna e la flora delle Indie occidentali che mescolava l’osservazione empirica alla narrazione mitopoietica, è che essa ci aiuta a riformulare la nostra stessa identità, ripensando in modo “eretico” il nostro rapporto con la natura, quasi integrando le prospettive psicanalitiche con quelle etologiche. Per questo, Bernardini conclude, “il mondo americano ha saputo dare un impulso fondamentale alla criptozoologia, recependo un’istanza anarchica della scienza, ora sempre più minacciata, ma ben viva nei cruenti e ‘ideologici’ anni Sessanta e Settanta del Novecento”.

L’estinzione di una natura paradisiaca presenta tragici risvolti anti-evolutivi con le pianificazioni genocidarie attuate da Homo sapiens verso il suo simile. Le politiche “imperialistiche” nel continente americano, estremizzazione di un pragmatismo conquistador di puritana determinazione, prima compromisero un quadro socio-tribale che – come nei Comanche studiati da P. Hämäläinen, ricorda l’Autore – diede vita a imperi seminomadi analogamente a quanto accadde nell’Asia centrale, poi dovettero, e debbono tuttora, confrontarsi con flussi di “minoranze” nuove (dall’Africa, dall’America centrale, dall’Asia meridionale e orientale, dal Medioriente) che hanno ridefinito – lo abbiamo visto drammaticamente negli ultimi mesi – la leggenda dorata del melting pot nordamericano (e si vedano nel libro le Notes on the State of Virginia di Thomas Jefferson, uno dei padri fondatori della nazione, forse contraddittorie ma in tal senso indicative e anticipatrici).

Persiste dunque una certa, irrisolta incomprensione di fondo in e per quel Nuovo Mondo, ma da sempre antico, che è l’America oggi anglofona e ispanofona (e non solo), accentuata forse da una comunicazione resa ancora più complessa da un modello global la cui costruzione e imposizione potrebbero sembrare – semplificando (e sbagliando) – di matrice WASP. In realtà, e il libro di Bernardini ce lo indica con uno stile brillante e una cifra interdisciplinare, l’America è un mondo costantemente futuro, non un “paradiso perduto”, in un orizzonte identitario talora rigido, altre volte fluttuante, persino marrano, che una mai placata speranza messianica descrive da Oriente come migliore.

Alberto Castaldini

Paolo L. Bernardini, La parte migliore del mondo. Scritti sull’America

A cura di Davy Marguerettaz. Ronzani, pagine 339, euro 20,00.

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