Uno dei cavalli di battaglia dei partiti populisti è la supposta “invasione” di migranti che, come una marea inarrestabile, si riversa sulle nostre coste, ruba il posto agli onesti lavoratori europei e si appresta a mettere in atto una drammatica “sostituzione etnica”. Oltre a essere pateticamente grottesca, questa campagna è totalmente falsa perché basata su elementi distorti, stereotipi e pregiudizi datati. In realtà, gli occidentali sembrano ignorare non solo che, come dimostrano le attuali conoscenze scientifiche, tutti gli esseri umani provengono dall’Africa ma che questo continente ha una storia millenaria, completamente sconosciuta, di cui bisogna iniziare a prendere atto. Un nuovo, interessante saggio ricostruisce questo passato, narrato però da studiosi africani che intendono liberarlo dalle scorie e dalle visioni fallaci e parziali della mentalità coloniale.
L’autrice, Zeinab Badawi, non è un’accademica (anche se ha fatto ottimi studi nelle migliori università britanniche) ma una nota giornalista della BBC che ha condotto un accurato lavoro di ricerca durato molti anni durante i quali ha intervistato centinaia di specialisti africani e testimoni per arrivare a narrare la storia del continente con gli occhi e le parole degli africani. Nata in Sudan da una famiglia di fede islamica, Badawi si trasferisce nel Regno Unito da bambina, si laurea a Oxford, lavora prima a Channel 4 e poi alla BBC, dove ha un ruolo di primo piano nella conduzione di World News Today e HARDtalk. Perfettamente cosciente del pericolo di dar vita a una controstoria, che si contrapponga e intenda sostituire quella elaborata dagli occidentali, Badawi dichiara esplicitamente che la finalità della sua narrazione è quella di affiancarsi e completare la storiografia esistente, specificando però che gli studiosi africani devono svolgere un ruolo sempre più attivo nelle ricerche e negli studi che riguardano l’Africa.
Siamo tutti africani
Citando una ricca bibliografia, ormai ampiamente accettata dai principali studiosi, l’autrice ci ricorda che il lungo e complesso processo evolutivo che ha portato alla nascita di quello che noi chiamiamo oggi “essere umano” è avvenuto in Africa e che è da qui che gli esseri umani si sono poi diffusi negli altri continenti. «Quando si esamina –scrive Badawi– la lunga storia dell’umanità, risulta evidente che la differenziazione razziale è un fenomeno relativamente recente; la genetica ci mette di fronte a dati di fatto che sono in contrasto con il concetto culturale di razzismo. In futuro, sulla base del DNA si potrebbe giungere a nuove interpretazioni, ma l’opinione attuale è che le caratteristiche della “razza bianca” siano emerse tra 8000 e 12000 anni fa, parecchio tempo dopo molte differenziazioni genetiche avvenute all’interno dell’Africa». Da questo deriva che noi siamo un animale africano, una specie africana che ha colonizzato il mondo con grande successo e diventa difficile negare che questo continente sia stato la prima culla degli esseri umani.
Ma oltre a trascurare la comune origine, l’Occidente non conosce grandi realtà storiche che sono nate e si sono sviluppate in Africa. Un esempio eclatante è il regno di Kush in Sudan, che è esistito per 3000 anni ma la cui storia è stata oscurata da quella dell’antico Egitto, l’unica civiltà africana che è stata studiata in modo approfondito dagli accademici bianchi. Nell’VIII secolo a. C. l’esercito kushita, che attribuiva un alto valore militare all’uso dei cavalli, invase e conquistò un Egitto indebolito da crisi interne e lo governò a lungo. Da Tebe, proclamata capitale per controllare meglio il Paese, il re kushita Shabaka aveva stretto alleanze con la Fenicia e con il regno di Giuda (l’attuale Cisgiordania), suscitando però l’ostilità del re assiro Sennacherib che era infastidito dall’ingerenza dei kushiti in aree che considerava parte della propria sfera di influenza. Shebitqo, successore di Shabaka, con il suo esercito, composto da forze del Basso Egitto e da truppe kushite, entrò in Asia occidentale e stabilì il suo quartier generale a Gaza. Ne seguì una feroce battaglia contro l’esercito assiro da cui uscirono vincitori i kushiti che aumentarono ulteriormente la propria influenza nel Mediterraneo meridionale.
Un altro grande regno africano (poco noto però agli storici occidentali) fu quello di Aksum, definito dal mistico e storico persiano Mānī come «una delle quattro grandi civiltà del mondo antico», insieme a Babilonia, Roma e la Cina. Il regno di Aksum, che durò mille anni, era situato sul bordo settentrionale della zona degli altipiani del Maro Rosso. Al culmine del suo splendore, tra il III e il VI secolo, copriva una vasta area che oggi include l’Etiopia e l’Eritrea, ma la sua influenza si estendeva fino all’Africa orientale e persino in Arabia. Mentre, dopo la caduta dell’Impero romano, l’Europa cadeva in quelli che sono sommariamente definiti “secoli bui”, gli aksumiti, il primo regno dopo l’Armenia ad adottare il cristianesimo come religione di stato, avevano un proprio sistema di scrittura, coniavano monete ed edificavano chiese, castelli e monumenti. Il regno era diventato ricco e potente perché controllava il commercio nel Mar Rosso tra Africa, Arabia, India e Asia. Oltre a dominare lo stretto strategico di Bab el-Mandeb, il regno di Aksum commerciava con l’Asia attraverso lo stretto di Malacca, con una proiezione di grande rilievo.
Arabi e occidentali complici nella tratta degli schiavi
Ovviamente, un saggio come questo dà ampio risalto allo schiavismo ma, in modo molto
coraggioso e controcorrente, affronta anche un aspetto solitamente trascurato dagli studiosi e dalla pubblicistica africana: la tratta orientale degli schiavi gestita da trafficanti arabi e dai loro alleati nel continente. Badawi ammette che «gli arabi e l’islam esercitarono un’influenza enorme sull’Africa, ma questo ebbe anche aspetti mostruosi. Infatti, con l’aiuto di alcuni mercanti arabi musulmani, ebbe inizio la prima tratta internazionale degli schiavi africani». Tra il VII e il XIX secolo i mercanti arabi, con la collaborazione di popolazioni locali come gli swahili, deportarono 14 milioni di africani. Uno dei centri di questa tratta era Zanzibar e il ruolo centrale veniva ricoperto dai mercanti dell’Oman, soprattutto dopo che ebbero preso il controllo di Mombasa, in quello che è oggi il Kenya. Anche se potevano lavorare nelle case, la maggior parte degli schiavi veniva usata in grandi progetti agricoli, mentre alle schiave erano riservate le attività domestiche. I Paesi arabi negano recisamente di aver mai praticato lo schiavismo ed esiste un unico museo che ricorda il fenomeno in Qatar. L’autrice sostiene però che non si tratti di un riconoscimento di quella terribile realtà storica ma del tentativo qatariota, colpito da numerosi scandali per i trattamenti inumani riservati ai lavoratori stranieri immigrati, di ripulire la propria immagine.
Tra il XVI e il XIX secolo, la tratta occidentale degli schiavi, iniziata dai portoghesi intorno al 1440 ma a cui parteciparono presto tutti i Paesi coloniali che operavano in Africa, strappò alla loro terra 12,2 milioni di africani, un numero inferiore a quello della tratta orientale. L’opinione pubblica occidentale ignora però questo fatto storico e si scaglia soltanto contro gli ex Paesi coloniali che, certamente, si macchiarono di crimini gravissimi ma non furono però i soli a farlo. Le conseguenze economiche dello schiavismo furono drammatiche: la vita sociale e produttiva delle popolazioni colpite venne distrutta anche perché, deportando soprattutto giovani in età riproduttiva, veniva inflitto un grave colpo alla demografia locale e questo imponeva un grave fardello anche sul futuro. Lo schiavismo, sommato alla feroce politica coloniale che nel XIX secolo saccheggiò l’intero continente, ha colpito in modo indelebile l’Africa. Oltre allo sfruttamento diretto, una delle peggiori eredità lasciate dal dominio coloniale è stata l’arbitrarietà con cui sono stati tracciati i confini, segnati su una mappa in modo casuale, senza tener conto della storia locale, delle lingue, delle culture, delle etnie.
Nelle sue conclusioni l’autrice evidenzia che, nonostante tutto, ci sono interessanti segnali di ripresa che indicano una prospettiva positiva per il futuro. Secondo Afrobarometer, una rete di ricerca panafricana, indipendente e imparziale, soltanto una piccola minoranza dei 36 Paesi coinvolti nei rilevamenti sentiva più affinità per il proprio gruppo etnico che per la propria nazione. L’unica eccezione a questa tendenza sono la Nigeria e il Sudafrica, in cui esiste un 25 per cento della popolazione che si identifica principalmente con il proprio gruppo etnico. Un altro dato che fa ben sperare è che i giovani africani (la schiacciante maggioranza della popolazione) sono evoluti e aperti alle nuove tecnologie che sono entrate a far parte della vita di tutti i giorni. In Kenya, più del 95 per cento delle famiglie (la percentuale più alta di qualsiasi nazione al mondo) utilizza qualche tipo di servizio bancario mobile. Secondo la Banca africana di sviluppo, entro il 2050 la dimensione dell’economia digitale del continente è destinata a crescere di oltre il 6 per cento l’anno, passando dai 115 miliardi di dollari odierni a 712. Il saggio documenta una tradizione culturale millenaria e una grande apertura alle tecnologie del futuro, elementi concreti che dimostrano come l’Africa sia già molto diversa dagli stereotipi con cui continuiamo a guardarla.
Zeinab Badawi
Storia africana dell’Africa
Dall’alba dell’umanità
all’indipendenza
Rizzoli, pp. 468, euro 25
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