di Galliano Maria Speri
Il 21 giugno 2017 l’anziano re saudita Salman ha nominato erede al trono suo figlio Mohamed bin Salman, estromettendo il nipote Mohamed bin Nayef, ministro degli Interni e noto esperto di antiterrorismo. Il trentunenne principe, molto noto per le proposte di radicali riforme economiche e per l’aggressiva politica estera, mantiene la sua posizione di ministro della Difesa, di supervisore della politica petrolifera e diventa anche vice Primo ministro. Questa scelta rinfocola le tensioni nell’area e apre la strada a uno scontro guerreggiato con l’Iran
Nuovo ministro degli Interni è il trentatreenne principe Abdul Aziz bin Saud, mentre il delicatissimo ruolo di ambasciatore negli Stati Uniti è affidato al fratello minore Khaled bin Salman, un pilota di aerei da caccia che non ha ancora compiuto trent’anni. Questa mossa concentra nelle mani di Mohamed bin Salman, che ama anche farsi indicare come MBS, un potere enorme che non si era mai visto prima, e che ha provocato molti risentimenti. Il rampante principe ha studiato in Arabia Saudita, a differenza della vecchia guardia ormai scalzata dal potere, che aveva invece compiuto i propri studi all’estero e possedeva una lunga esperienza di governo. MBS, che ha fatto una carriera fulminante da quando suo padre è salito al trono nel gennaio del 2015, è visto con simpatia dalle giovani generazioni saudite per il suo piglio moderno e per le proposte di grandi riforme economiche e sociali. I suoi sostenitori ne lodano la grande capacità di lavoro e la visione ottimistica del futuro, mentre i critici lo dipingono come un personaggio assetato di potere e temono che la sua inesperienza conduca il paese in situazioni drammatiche senza una chiara soluzione per uscirne. Il principe è sicuramente dotato di una certa abilità nell’usare i media e si è fatto la fama di riformatore proponendo un avveniristico piano denominato “Saudi Vision 2030” con il quale si ripropone di diminuire la dipendenza saudita dal petrolio, riformare drasticamente la decrepita burocrazia del regno e introdurre coraggiose riforme sociali. Finora, però, la sua politica economica, tradizionalmente affidata a tecnocrati esterni alla famiglia reale, si è rivelata fallimentare, poiché tutti i suoi tentativi di far risalire il prezzo del petrolio non hanno sortito alcun effetto ed è stato costretto a imporre un’inconsueta politica di austerità che ha ridotto il bilancio, congelato i contratti del governo e bloccato gli stipendi degli statali. Ma nonostante il clima di restrizioni, MSB non ha saputo resistere quando ha visto il Serene, un favoloso yacht di 130 metri ancorato in Costa azzurra e appartenente a Yuri Shefler, un industriale russo che produce vodka. Ha fatto contattare immediatamente il proprietario e, in men che non si dica, ha firmato il contratto di acquisto per la modica cifra di 500 milioni di euro.
Un pericoloso giocatore d’azzardo
Il giovane Mohamed ama apparire sui social media, si è fatto fotografare con Mark Zuckerberg e si atteggia a modernizzatore cui tutti dovrebbero guardare con simpatia. I fatti che lo riguardano ci raccontano però la storia di un impulsivo che ama rischiare. Come ministro della Difesa egli è il principale responsabile della disastrosa campagna militare nello Yemen, per sconfiggere i ribelli Houthi, che occupano la capitale. Dopo ingentissimi investimenti e due anni di intervento non ci sono stati progressi militari e i sauditi sono stati accusati di bombardare i civili, distruggere l’economia di uno dei paesi più poveri del mondo arabo e di aver esacerbato la già tragica situazione umanitaria. L’ONU ha calcolato che su una popolazione di 27 milioni di persone, circa 17 non abbiano abbastanza cibo, inclusi 462.000 bambini al di sotto dei cinque anni che vengono definiti nel rapporto “seriamente malnutriti”, stanno cioè morendo di fame. Le truppe sostenute dai sauditi stanno attaccando il porto di Hodeida sul Mar Rosso, attraverso cui lo Yemen importa l’80% del suo fabbisogno alimentare. Se quel porto verrà chiuso gli yemeniti si troveranno di fronte alla peggiore carestia che abbiano mai visto. È una tragica ironia che nei giorni scorsi il re saudita abbia generosamente donato 66 milioni di dollari allo Yemen per combattere il colera provocato dalla distruzione bellica di tutte le infrastrutture sanitarie, causata dagli stessi sauditi. Anche l’aggressiva politica in Siria, con i finanziamenti alle milizie sunnite che combattono il dittatore Bashar el Assad, non ha sortito nessun effetto, anzi, ha creato le precondizioni per l’intervento russo che ha polverizzato la strategia saudita.
Nel dicembre del 2015, il servizio segreto tedesco BND aveva fatto filtrare un breve ma densissimo memorandum in cui si affermava che l’Arabia Saudita aveva adottato una “impulsiva politica di intervento” e l’attuale principe ereditario, allora soltanto ministro della Difesa, veniva definito come un giocatore d’azzardo che stava destabilizzando il mondo arabo con le sue guerre per procura in Siria e Yemen. Il rapporto ammoniva inoltre che la concentrazione di tanto potere nelle sue mani “implica il rischio latente che egli cerchi di entrare direttamente nella linea di successione con il re ancora in vita e vada fuori dalle righe”. Alcuni quotidiani tedeschi ripresero il rapporto ma, dopo le furenti proteste saudite, il ministero degli Esteri tedesco mise tutto a tacere.
Quanto avvenuto il 21 giugno scorso mostra però che il memorandum aveva visto giusto. Per placare le preoccupazioni internazionali sul suo conto, circa un anno fa, Mohamed bin Salman aveva dichiarato al settimanale britannico The Economist che “una guerra tra l’Arabia Saudita e l’Iran sarebbe l’inizio di una catastrofe di grandi proporzioni nella regione e si rifletterebbe con forza sul resto del mondo. Noi non consentiremo certamente che una cosa del genere possa accadere”. Pochi media hanno però notato che nei primi giorni del maggio scorso MBS ha concesso un’intervista alla TV al Arabiya e alla TV di stato saudita in cui minaccia un intervento diretto in Iran. “Non aspetteremo –ha detto Mohamed bin Salman – che lo scontro arrivi sul suolo saudita, ma opereremo affinché la battaglia si combatta su suolo dell’Iran”. Continuando poi con un duro tono settario, ha denunciato che i capi iraniani intendono impossessarsi della Mecca e dominare quindi su 1,6 miliardi di musulmani. “La loro logica – ha proseguito – è basata sulla nozione che l’Imam Mahdi ritornerà e che essi devono preparare un terreno fertile per il suo arrivo, in modo da prendere il controllo del mondo musulmano”. È difficile immaginare come quattro o cinque paesi a maggioranza sciita possano dominare i cinquanta paesi a maggioranza sunnita, a meno che non si sia fortemente fanatici. Questo personaggio, che si qualifica per le dichiarazioni che fa, è oggi principe ereditario di un paese governato da un monarca di 81 anni, con una salute cagionevole e una mente non perfettamente lucida.
Il grande nemico iraniano
L’ascesa al trono di re Salman, sotto l’influenza del bellicoso figlio, ha coinciso con una recrudescenza dell’atteggiamento ostile verso l’Iran. La svolta è stata il 2 gennaio 2016 con l’esecuzione dello sceicco Nimr al-Nimr, un religioso sciita che è stato giustiziato con altre 46 persone, in maggioranza jihadisti sunniti o dissidenti. Questo ha suscitato proteste a manifestazioni in Iran, a maggioranza sciita, ma anche a Londra, Chicago, Toronto, Washington e Camberra in Australia.
Il 7 giugno 2017 c’è stato il primo attacco dell’Isis in Iran, quando un commando di terroristi ha attaccato il parlamento iraniano e il mausoleo di Khomeini causando la morte di 17 persone. Le Guardie rivoluzionarie iraniane ritengono che siano stati i sauditi a organizzare gli attentati. Considerando però che, insieme a curdi e russi, sono proprio gli iraniani i maggiori nemici dell’Isis sul campo, non è certo difficile comprendere le motivazioni dell’operazione. La diplomazia iraniana, che ha condotto con successo l’importante accordo sul nucleare, continua fortunatamente a mantenere un atteggiamento molto cauto. Durante una conferenza stampa ad Oslo, Mohammad Javad Zarif, ministro degli Esteri iraniano, ha riferito di essere in possesso di informazioni su un “impegno attivo dei sauditi” nel promuovere gruppi terroristici nella provincia del Belucistan al confine con il Pakistan. Ma, nonostante questo, il diplomatico iraniano ha fatto un appello per la creazione di un forum regionale per risolvere i problemi dell’area. “È assolutamente imperativo – ha detto Zarif – creare un meccanismo permanente per consultazioni, conversazioni e risoluzione di conflitti nella nostra regione, usando delle varianti agli accordi di Helsinki”, riferendosi agli accordi del 1975 che migliorarono notevolmente le relazioni tra l’Occidente e il blocco comunista. “Ritengo – ha concluso Zarif – che se quegli accordi hanno funzionato nel momento più drammatico della Guerra fredda in Europa, dovrebbero funzionare anche il per il Medio Oriente”. La posizione moderata del ministro degli Esteri iraniano è l’atteggiamento giusto per evitare che si passi da uno stato di ostilità con i sauditi a uno scontro vero e proprio. Il giovane e focoso principe saudita non sembra però molto dotato di sottigliezza diplomatica e preferisce ricorrere al linguaggio aggressivo e alle maniere forti.
Non dimentichiamo che l’ex ministro degli Interni Mohamed bin Nayef, che era riuscito a disarticolare la rete di Al Qaeda in Arabia Saudita, aveva stabilito buone relazioni con l’emiro del Qatar, contribuendo a raffreddare le tensioni con i paesi vicini. L’irricevibile ultimatum presentato dai sauditi al Qatar, che equivale a una vera e propria dichiarazione di guerra, indica che la Corona saudita non intende deflettere dalla linea aggressiva.
A proposito dell’ascesa di Mohamed bin Salman, Maha Yahya, direttrice del Carnegie Middle East Center di Beirut, ha dichiarato al New York Times che “questo è veramente il momento in cui abbiamo bisogno di una diplomazia pacata. C’è necessità di politici con la mente fredda che siano capaci di ridurre le tensioni piuttosto che aumentarle. Sotto re Salman la politica estera ha assunto un tono più aggressivo e ora potrebbe andare anche peggio”.
Trump e Mohamed bin Salman
Il terremoto nell’assetto del potere saudita non sarebbe potuto accadere senza l’esplicito assenso del presidente americano che, evidentemente, ragiona come un miliardario che si sente affine ai ricchissimi sauditi, senza cogliere le implicazioni strategiche di un potenziale conflitto guerreggiato tra Iran e Arabia Saudita. Alcune dichiarazioni rilasciate da Trump lo scorso anno durante la campagna elettorale in Alabama ci aiutano a capire meglio il suo atteggiamento verso i sauditi e i loro soldi. “Comprano appartamenti e proprietà immobiliari da me – disse in quell’occasione il candidato Donald Trump – spendendo 40-50 milioni di dollari. E io dovrei odiarli? Io li amo tantissimo”. Non dobbiamo quindi meravigliarci se a sole 24 ore dalla nomina del nuovo principe ereditario, Trump si è congratulato per la scelta e ha celebrato la cooperazione con Riad nello sradicare i finanziamenti al terrorismo. Sia lui che il principe ritengono l’Iran un avversario ed entrambi accusano il Qatar di finanziare gruppi estremisti. Ma anche Jared Kushner, il genero del presidente, ha ottime relazioni con MBS. Secondo il New York Times, a marzo di quest’anno, il principe è stato ricevuto alla Casa Bianca nell’Oval Room e ha pranzato nella sala ufficiale per i banchetti, un trattamento a cui un semplice ministro della Difesa non avrebbe avuto diritto. Il giovane principe ha anche cenato nella residenza privata di Kushner e Ivanka. Durante la visita ufficiale in Arabia Saudita, Mohamed bin Salman ha ospitato a sua volta la figlia e il genero del presidente nella sua residenza, consolidando ulteriormente i rapporti.
L’attuale amministrazione americana considera l’astro nascente saudita come un riformista, alla luce del suo ambizioso progetto (che, per ora, sta tutto sulla carta), ma potrebbe aver fatto un errore imperdonabile. Il problema non è soltanto quello che le favolose riserve petrolifere saudite potrebbero essere inferiori del 40% a quanto è stato raccontato finora, come ha rivelato Sadad al-Husseini, l’ex capo dell’esplorazione della compagnia saudita Aramco. La questione vera è che più di trent’anni fa il Sunday Times era stato attirato in Arabia Saudita per seguire le strabilianti riforme che stavano per essere messe in atto. I giornalisti arrivati in loco non riuscirono però a individuare nessun segno di cambiamento e, ancora oggi, l’Arabia Saudita è uno dei paesi più socialmente arretrati al mondo, ogni due giorni viene giustiziato un condannato a morte, le donne non hanno praticamente diritti civili e non è consentito loro di guidare l’auto.
Dal 21 giugno un giovane impulsivo e inesperto è entrato ufficialmente nella stanza dei bottoni del regno saudita e siede su una montagna di miliardi di dollari che vuole usare per schiacciare definitivamente l’Iran, anche a costo di uno scontro militare di cui, evidentemente, non afferra tutte le implicazioni. Visto che l’amministrazione Trump non sembra porsi il problema di come gestire le sue ambizioni globali chi potrebbe portarlo a più miti consigli?
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