Leonardo Servadio

Isidoro di Kiev era il Patriarca della città che oggi è la capitale dell’Ucraina ed era anche patriarca di Mosca: la personalità eminente nel cristianesimo orientale. Nel 1439 prese parte al Concilio di Firenze che, com’è noto, fu l’ultima fase del grande incontro conciliare apertosi a Basilea nel 1431 e poi proseguito a Ferrara. In ballo c’erano l’unione della Chiesa dopo lo scisma d’Occidente, così come il rapporto di questa con le Chiese di Oriente, sullo sfondo della minaccia rappresentata all’epoca per Costantinopoli dagli Ottomani. Il Concilio di Firenze ebbe un’importanza tutta particolare: fu ampiamente finanziato dal maggiore tra i capitalisti dell’epoca, Cosimo de’ Medici, il “Soros” di quei tempi; alla nutrita delegazione di Bisanzio parteciparono tanti intellettuali che portarono con sé diversi documenti sino ad allora non conosciuti in Italia che erano stati fondamentali per la cultura classica greca; attorno a quell’evento lo studio di Platone e in generale della filosofia greca conobbe un vero e proprio boom a Firenze; lo si ritiene un momento cardinale per il fiorire del Rinascimento.

Isidoro di Kiev. Foto di autore ignoto – Ruthenia Catholica, Public Domain, https://commons.wikimedia.org

I partecipanti, tra i quali Isidoro, sottoscrissero l’unione delle Chiese e il riconoscimento del papa di Roma quale primus inter pares, espressivo della cattolicità, ovvero dell’universalità (si direbbe oggi della globalità) della Chiesa.

Nel 1441, pochi giorni dopo la conclusione del lungo viaggio che lo riportò a Mosca, avendo proclamato e difeso l’unione e il primato papale, Isidoro fu incarcerato dietro ordine di Vassili II, il principe di Mosca, spalleggiato dall’oligarchia locale che accusava Isidoro di apostasia. Riuscì fortunosamente a fuggire e tornò a Roma dove fu ospitato quale prelato della Chiesa Cattolica. La Chiesa moscovita, assoggettata com’era all’oligarchia locale, rimase arroccata nel suo atteggiamento separatista, sancito sin dal 1054 con lo scisma d’Oriente: naturalmente dal punto di vista moscovita era stata la Chiesa latina a scindersi da quella russa, che modestamente si chiamò Ortodossa, come a sottolineare che gli altri, i cristiani occidentali, sono eterodossi.

La Chiesa russa si sentiva tale: russa, una Chiesa nazionale e si riteneva portatrice dei valori originari del Cristianesimo che la modernità (dell’epoca) invece, dal suo punto di vista, stava corrompendo in Occidente.

Nella separazione tra Ortodossi e Cattolici, oltre alla disputa sul primato del papa di Roma, l’altro punto controverso era quello riguardante la processione dello Spirito nell’enunciazione del Credo: in Occidente si era cominciato a dire che lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio (filioque). In Oriente si preferisce asserire che lo Spirito procede dal padre per mezzo del Figlio: formulazione nella quale si potrebbe ravvisare una sottolineatura della gerarchia trinitaria che un non addetto ai lavori potrebbe interpretare come proiezione di una specifica visione sociale alla quale l’idea della parità di diritti risulti estranea.

Ma, tralasciando gli aspetti prettamente dottrinali che ovviamente non competono ai non teologi, il rifiuto del concetto di Cattolicesimo palesemente implicava un’affermazione del nazionalismo: le Chiese ortodosse orientali sono nazionali, ed estendono la loro area di interesse al di fuori dei confini nazionali nella misura in cui la nazione medesima estende il proprio influsso altrove.

Qui si ravvisa un problema di carattere generale: ovviamente il vincolo territoriale delle Chiese orientali le porta a essere vincolate anche al potere politico. Non sono le uniche, beninteso: anche molte Chiese riformate, da quella Luterana a quella Anglicana, nacquero in funzione dei legami diretti col potere politico territoriale.

Sono proprio quei legami che la Chiesa Cattolica ha progressivamente abbandonato nel corso del tempo, per perseguire l’indicazione evangelica “date a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare”: una separazione dei poteri che fa il paio con l’orientamento universale della Chiesa di Roma, per la quale è fondante la missione ad gentes di cui s. Paolo fu propugnatore. Certamente è stato lento e complesso il processo di distacco della Chiesa Cattolica dal potere terreno, e ha conosciuto alti e bassi per liberarsi della pesante eredità lasciata da Teodosio che nel 380, con l’editto di Tessalonica, fece del Cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero romano.

Ma questo progressivo, travagliato distacco tra Chiesa e Stato, in Italia auspicato anche da parte del potere terreno sin dall’epoca dell’Unità (“libera Chiesa in libero Stato”), in Russia non sembra essere mai avvenuto.

E in questo si ritrova uno di quei caratteri locali che prescindono dalle epoche, dalle mode e dalle ideologie. Qualcosa che viene riflesso anche nelle ripetute prese di posizione dell’attuale Patriarca moscovita, Kirill che, pur auspicando almeno a parole la pace, ha ripetutamente riaffermato il proprio sostegno all’invasione militare dell’Ucraina: “Siamo un Paese che ama la pace e non abbiamo alcun desiderio di guerra, ma amiamo la nostra Patria e saremo pronti a difenderla nel modo in cui solo i russi possono difendere il loro Paese” ha sostenuto, secondo quanto riportato da Rainews il 4 aprile. E ancora: “La maggior parte dei Paesi del mondo è ora sotto l’influenza colossale di una forza, che oggi, purtroppo, si oppone alla forza del nostro popolo… Allora dobbiamo essere anche molto forti. Quando dico ‘noi’, intendo, in primis, le forze armate ma non solo. Tutto il nostro popolo oggi deve svegliarsi”.

Sono molti in Occidente, e tra questi anche papa Francesco, a riconoscere e denunciare l’espansionismo della Nato come qualcosa di nefasto, così come molti si sono opposti a suo tempo alla perversione distruttiva della logica del libero mercato portato in Russia dopo il crollo del Comunismo. Ma, altro è sostenere moralmente il proprio popolo, altro è incoraggiare l’avventurismo militare: così come papa Francesco ha criticato e osteggiato l’arroganza militarista occidentale, non ha mancato di far notare a Kirill che sarebbe meglio che non si comportasse come un “chierichetto di Putin”, come ha detto in un’intervista pubblicata dal Corriere della Sera il 3 maggio.

E ancora, altro è ingaggiare un dibattito politico ed economico per quanto acceso, altro è passare alle vie di fatto e mandare i carri armati: è vero che la Russia dei primi anni ‘90 è stata schiacciata dall’irruenza del libero mercato, ma quella Russia accettò le distruttive ingerenze economiche statunitensi e in questo è stata artefice del proprio destino non meno dei consiglieri inviati a Mosca per diffondere il verbo dei Chicago Boys.

Per questo oggi appare tanto più significativo che da parte russa le varie politiche economiche, finanziarie e culturali che giustamente percepisce come ingerenze distruttive, non siano contrastate a livello politico, economico, finanziario e culturale, ma si traducano in un’invasione militare. Come un ragazzone, grosso ma di non grande acume che, di fronte allo scherno e alle provocazioni altrui, non sapendo come argomentare con parole, si mette a menar le mani. Nulla di nuovo peraltro, già l’URSS invase ripetutamente Paesi che teneva come parte del proprio impero: Ungheria nel 1956, Cecoslovacchia 1968, e nel 1981 solo il colpo di Stato attuato abilmente dal generale Jaruzelski evitò alla Polonia di essere invasa. E ovviamente si ricordi che il Muro di Berlino, eretto a partire dal 1961, fu anch’esso l’espressione di una poderosa ingerenza, simile a un’invasione: serviva a bloccare il flusso di Tedeschi desiderosi di sfuggire ai diktat sovietici rifugiandosi nella Germania occidentale.

Ecco dunque che, pur essendo un grande Paese, ricco di una grande storia, la Russia contemporanea, soprattutto da quando col comunismo sovietico è stata in grado di assaggiare il sapore di un influsso globale sul mondo, mostra la ricorrente tendenza a rivolgersi all’uso della forza per affermare il proprio dominio su territori che per i motivi più diversi ritiene essere rilevanti per gli interessi nazionali.

Traspare in tutto questo il volto della Grande Madre Russia: una visione da ideologia nazionalista che in effetti è diametralmente opposta, non solo alla proiezione oligarchica della grande finanza occidentale, ma anche all’idea di eguaglianza di diritti tra esseri umani e popoli.

In questi anni chi più si è impegnato a dar forma argomentata a questa ideologia è stato Aleksandr Dugin. Filosofo, sociologo, politologo, Dugin sostiene che negli ultimi due secoli siano emersi in successione tre paradigmi politici: quello liberale, quello socialista-comunista-marxista e quello fascista. Dopo il collasso di questi ultimi due oggi, afferma, è rimasto solo il primo, particolarmente efficace e longevo ma non meno nefasto. Il paradigma liberale esalta l’individuo e ignora la socialità, per cui si sta avvitando in una crisi esiziale di cui i ripetuti collassi finanziari sono un’espressione, così come lo è l’imperialismo militarista manifestatosi nelle ripetute invasioni guidate dagli USA in vari Paesi quali l’Irak e l’Afghanistan. Quindi, ribadisce Dugin, è oggi tempo che il liberismo crolli schiacciato dalle sue tensioni interne e che si apra un nuovo periodo, in cui i vecchi comunisti e i vecchi fascisti possono collaborare per facilitare l’affossarsi del liberalismo stesso.

La parte destruens del suo argomentare è ampiamente sviliuppata, carente è però la parte construens: Dugin non presenta una chiara visione di che cosa dovrebbe sostituire il liberalismo imperante, per quanto gli dia un nome: la Quarta Teoria Politica. Diffondendosi questa, sostiene, deve finire l’egemonia statunitense per dar luogo a una visione multipolare del mondo.

Il problema è che, guardando meglio alle caratteristiche di questa visione multipolare del mondo, si nota che Dugin afferma che centrale è l’emergere dell’Eurasia quale nuovo centro propulsore.

Con un’inversione di prospettiva rispetto a quella che era stata elaborata da Mackinder, Dugin propugna il collasso del mondo angloamericano inteso come la talassocrazia contemporanea, a vantaggio dell’emergere della primazia della massa continentale eurasiatica. E tale massa continentale a sua volta è imperniata su un centro: la Russia. Dobbiamo, sostiene “presentare la Russia non come un’entità pre-liberale, ma come una forza rivoluzionaria post-liberale, che combatte per un futuro diverso per tutti i popoli del pianeta. La guerra russa non sarà solo a vantaggio degli interessi nazionali russi, ma sarà per la causa di un mondo multipolare più equo… la Russia darà l’esempio come tutrice della Tradizione e dei valori conservatori connaturati ai popoli e rappresenterà la vera liberazione dalla società aperta e da chi ne beneficia – l’oligarchia finanziaria globale”: questo scrive nel marzo 2014 sotto il titolo “La guerra alla Russia nella sua dimensione ideologica. Un’analisi della prospettiva della Quarta Teoria Politica” (in “La quarta teoria politica”, Milano 2020, pag 394).

La sua è una visione millenaristica in cui la Russia è presentata come la “Prima potenza ideologia post-liberale” votata ad affossare il nichilismo implicito nel liberalismo. Nel sostenere queste teorie egli si fonda sulle visioni del mondo propugnate da Nietschke e Heidegger, e opera in coerenza col proprio impegno politico che lo portò anni fa a fondare il partito Nazional-bolscevico, palesemente una visione riveduta e corretta dell’antico partito Nazional-socialista che diede alla Germania i suoi fasti degli anni Trenta.

Poiché Heidegger è stato portato in palmo di mano in questi ultimi decenni, è bene ricordare come lasciò, perché fosse pubblicato solo dopo la sua morte, uno dei suoi scritti più eloquenti ed espliciti, intitolato all’Ultimo dio, in cui proponeva una visione a-cristiana o precristiana, riferita a una vaga religiosità intrinseca all’essere umano, ma estranea alla religione rivelata.

Una specie di ritorno al paganesimo che Dugin fa proprio anche attraverso la critica serrata che conduce contro il concetto di progresso, in favore di una visione ciclica del tempo: qualcosa di totalmente estraneo alla visione trasmessa dalla Chiesa Cattolica, come espressa per esempio nella Populorum progressio di Paolo VI e in tutta la dottrina sociale della Chiesa.

Questa è qualcosa che Dugin completamente ignora, così come ignora (non nel senso che non le conosca, ma nel senso che non le prende in considerazione) quanto varie siano le correnti di pensiero e di azione che attraversano il mondo che egli qualifica, in un unico grande calderone, come “liberalista”. In particolare ignora la tradizione dell’umanesimo cristiano, così come anche la politica economica statunitense legata alla figura di Alexander Hamilton con le sue varie derivazioni e i suoi riflessi più recenti nel New Deal.

Il linguaggio di Dugin è intessuto di richiami alla guerra: già nel 2014 dava per scontato che ci sarebbe stata una guerra in Ucraina e che la Russia dovesse condurla per liberare il mondo dal liberismo.

La Russia sovietica aveva raggiunto un livello di potenza che la rendeva capace di contrastare il potere statunitense. Ma oggi la Russia ha perso quel potere, sia sul piano ideologico, sia sul piano economico e strategico: può coltivare la speranza di ottenere ancora uno status di potenza mondiale solo a due condizioni. Da un lato, nella misura in cui può, sul piano ideologico, assemblare, come desidera fare Dugin, i residui comunisti e fascisti cercando di associarvi coloro che in Occidente a vario titolo si oppongono allo strapotere finanziario sorto con l’iperliberismo friedmanita. Dall’altro lato, sul piano strategico, associandosi alla Cina, la potenza ormai non più “emergente”, ma completamente emersa.

Ma un tempo la Cina, all’epoca di Mao, era la junior partner della Russia di Stalin. Oggi l’unica speranza per la Russia di associarsi alla Cina, è di accettare la posizione di junior partner al suo cospetto. Il che appare difficilmente conciliabile con le ambizioni attuali della Russia.

A questa dunque rimane di sperare che il conflitto tra USA e Cina originato da Trump nei suoi anni di presidenza statunitense, possa svilupparsi ulteriormente soprattutto grazie alle tensioni che ribollono attorno alla questione di Taiwan.

Se gli USA e la Cina saranno sufficientemente prudenti da evitare uno scontro su Taiwan, questa resterà nelle condizioni di “avversario” del mondo occidentale, come è stata definita dal recente vertice NATO di Madrid, ma non di “nemica”, categoria riesumata invece per la Russia di Putin, che è anche la Russia di Dugin, almeno sul piano militare.

Più ampio e problematico invece è il discorso sul piano economico. Finché il mondo occidentale non saprà dare più spazio alla tradizione dell’umanesimo cristiano e a politiche economiche di stampo hamiltoniano, le disparità e le tensioni sociali non potranno che crescere al suo interno, così alimentando le speranze dei guerrafondai russi.

La guerra in Ucraina in effetti ha questo aspetto ideologico che sinora non è stato colto dal mondo occidentale, troppo schiacciato sulla visione del liberismo ortodosso. C’è da sperare che riesca a considerare che i proclami di Dugin costituiscono un pericolo solo nella misura in cui questa ortodossia liberista persisterà, minandolo all’interno e pertanto tarpando anche la sua capacità di dialogare con altri Paesi e tradizioni, quali quelle russa o cinese che, s’è visto nella storia, non sono tanto propense ad accettare la cultura occidentale.

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