Ideologia Trump, o della fine degli Stati Uniti

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di Leonardo Servadio
Il primo Presidente che ha governato stando all’opposizione: di per sé una specie di miracolo politico. La presidenza di Donald Trump 2017-2020 segna un passaggio epocale del tempo impropriamente chiamato post-ideologico. Molteplici sono i motivi, e attengono alla persona di Trump, al suo stile di azione, al modo di relazionarsi all’interno e all’esterno, ma soprattutto all’ideologia di cui è eminente rappresentante.
L’ideologia e Trump
Negli Stati Uniti del secondo dopoguerra si è imposta l’ideologia dell’anticomunismo. Prevalendo a quel tempo il corpus dottrinale socialista e marxista di derivazione ottocentesca sullo scenario dei dibattiti e degli scontri in ogni campo (accademico, giornalistico, politico), non s’è fatto caso al crescere di questa anti-ideologia che ha avuto negli USA il suo epicentro. Eppure, pur mancando di un corpus dottrinale, anche l’anticomunismo è un’ideologia, e non è cessata col venir meno della minaccia sovietica.
Trump di questa è un campione. Come già illustrato da altri in queste pagine (per esempio http://www.frontiere.eu/roy-cohn-and-mccarthy-the-intercourse-hat-shaped-trump/ di Elisabeth Hellenbroich e http://www.frontiere.eu/mary-trump-unleashes-the-erinyes-against-her-uncle/ di Bonnie James), figlio e promotore della speculazione immobiliare, cresciuto con l’idea fissa di schiacciare chiunque gli si pari di fronte, Trump s’è fatto le ossa in politica all’ombra di una delle figure più squallide del secondo dopoguerra: l’avvocato Roy Cohn che agì sotto l’egida del maccartismo nel perseguire presunte spie sovietiche nel corso degli anni Cinquanta. In quel periodo si impose l’anticomunismo come struttura di pensiero radicata nella genetica della società statunitense.
Tale forma mentis ha sortito conseguenze esattamente opposte a quelle auspicate. Emblematico al riguardo resta il noto incidente del golfo del Tonchino, dell’agosto 1964: un fatto inventato dall’apparato della propaganda americana per porgere il destro affinché L.B. Johnson, acceduto l’anno prima alla Presidenza a conseguenza dell’assassinio di J.F. Kennedy, trasformasse il conflitto interno al Vietnam nella guerra tra Stati Uniti e Vietnam del Nord. Guerra che gli USA hanno perso, sia sul piano militare, sia sul piano morale, e che ha segnato la conclusione del loro passaggio, da potenza anticoloniale qual erano al tempo della loro formazione, a vero e proprio impero militare e finanziario. Una volta impegnati i propri soldati di leva nella guerra in Vietnam, accompagnati dall’illusione del loro strapotere tecnologico (si ricorderà l’uso massiccio, disastroso sul piano ecologico quanto inutile sul piano militare, dei bombardamenti col napalm sulle foreste vietnamite) proclamando di arrestare lì la paventata avanzata mondiale del comunismo, gli anticomunisti Stati Uniti non han fatto che spingere, in virtù di contrasto, prima il Vietnam, poi la Cambogia e di seguito altri Paesi, proprio nelle braccia del comunismo sovietico. Tutta la politica estera americana è così diventata un caso emblematico di eterogenesi dei fini.
Trump ha coltivato questa ideologia dell’anticomunismo e l’ha usata nelle sue campagne elettorali, accusando non solo Bernie Sanders di essere un “socialista” (Sanders peraltro si dichiara socialista democratico e ciononostante è stato eletto ripetutamente prima al Congresso, dal 1991 e quindi al Senato dal 2007), ma anche accusando di socialismo Joe Biden, certamente molto lontano da tale corrente di pensiero. La stessa mentalità è quanto ha portato Trump a scagliarsi contro il primo timido tentativo messo in campo dal suo predecessore, Barack Obama, di stabilire anche in USA un sistema di assistenza sanitaria simile a quelli esistenti in Europa.
Nel marcare la sua ostilità a tutto quanto puzza agli occhi dell’americano medio di statalismo, Trump ha fatto leva sul liberismo fondamentalista, che a sua volta è una variante dell’ideologia anticomunista, tipizzato dal movimento “free to choose” con grande successo lanciato da Milton Friedman alla metà degli anni ’70: il fondamentalismo del libero mercato-giungla ormai ampiamente screditato dalle ripetute crisi finanziarie ed ecologiche, la cui soluzione si può trovare solo in un deciso intervento della politica in funzione di regolazione informata alla giustizia sociale.
È proprio per esprimere il suo fondamentalismo liberista che Trump ha tolto gli USA dalle intese internazionali tendenti a proteggere le condizioni della biosfera, quali l’accordo di Parigi del 2015.
Riflessi di elettorato
Ma il problema non è semplicemente Trump come persona, bensì il fatto di aver ottenuto oltre 74 milioni di voti pur dopo che nei suoi 4 anni di presidenza doveva esser chiaro a tutti di che pasta fosse fatto. Trump, come peraltro la quasi totalità dei politici in qualsiasi parte del mondo, non è che un riflesso dell’elettorato sulla cui onda si muove e ai cui stimoli risponde.
Esaminando il profilo di chi lo ha votato, come risulta dagli exit poll, si nota che si tratta in prevalenza di uomini di pelle bianca (il discrimine etnico negli USA è ancora molto rilevante) nelle aree urbane e di persone che vivono in ambiente rurale o nelle zone fortemente colpite dalla deindustrializzazione. Nel caso di queste seconde due categorie di elettori, si può ritenere che sostengano Trump come manifestazione di dissenso verso la corrente che pare prevalente, il cosiddetto establishment. Nel primo caso, elettori di pelle bianca, si ravvisa un sottofondo di neorazzismo simile a quello che s’è risvegliato anche in Europa con l’ondata dei populismi sostenuti dall’ostilità verso i nuovi immigranti.
E non a caso uno dei cavalli di battaglia di Trump dal 2016 in poi, nonché del suo scudiero Steve Bannon, è quello dell’erezione di barriere anti immigranti al confine sud col Messico, sullo stile della Grande Muraglia cinese.
Difendere casa propria da un mondo minaccioso dal quale possono provenire persone che puzzano di povertà: un tema su cui facilmente si ottiene consenso, senza troppo scervellarsi su come trovare soluzioni per i mali che affliggono questo mondo. Soluzioni che peraltro richiederebbero impegni di lungo periodo e non consentono di far balenare miracolistiche promesse di brevissimo periodo, come quelle entro i cui limiti, i ritmi della politica e dell’economia finanziaria hanno costretto il mondo.
La demagogia agita emozioni di facile presa e in questo Trump è assai abile, tanto che, pur appartenendo al novero dei super ricchi e dei grandi speculatori, e pur avendo lasciato sul lastrico migliaia di famiglie con le sei successive procedure fallimentari cui le sue aziende si sono sottomesse per risolvere i pasticci in cui si son trovate, effettivamente Trump ha trovato sostenitori anche tra persone degli strati sociali meno privilegiati.
Trump ha incarnato l’egoismo di massa che facilmente agita gli animi quando di fronte a grandi problemi quali la crisi del 2008, non v’è alcuno che presenti solide e grandi prospettive.
Ma proprio questo invece è quanto dovrebbe fare la politica, la vera politica, non il convulso agitarsi di venditori di fumo.
Al riguardo può essere rilevante confrontare le visioni dell’era Trump con gli ideali che hanno caratterizzato gli Stati Uniti dei Kennedy. Questi non erano meno anticomunisti di Trump e purtroppo con tutte le loro buone intenzioni hanno partecipato all’autolesionistico gioco di aggredire con la forza il presunto nemico invece di convincerlo con la ragione (si pensi al tentativo di sbarco alla Baia dei Porci nell’aprile ’61, che intendeva rovesciare il regime di Fidel Castro e non fece che rafforzarlo). Ma fecero altro, oltre a quegli errori: la nuova frontiera della conquista dello spazio, pur inquadrata nell’ambito della competizione con l’Unione Sovietica, ha contribuito ad aprire una nuova visione e una più ampia e approfondita conoscenza del mondo; l’impegno per la giustizia sociale e per il superamento delle differenze di gruppi sociali ed etnici ha caratterizzato tanta parte della politica che si è riconosciuta sia in J.F. Kennedy, sia in suo fratello Robert.
Tanto quella visione politica si fondava sull’idea di giustizia sociale e su prospettive di lungo termine, quanto la visione proiettata da Trump è stata fondata sull’egoismo, su visioni ristrette, sull’aspirazione a facili soluzioni e di breve respiro. Dalla Nuova Frontiera e dalla Grande Società si è passati all’America First. Dall’idea di conquistare nuovi orizzonti in campo scientifico e di sconfiggere la povertà, si è passati con Trump all’idea di chiudersi in casa a godersi le proprie ricchezze tenendo lontani i poveracci.
Un aborto di politica
Ma, ancora, è vero che non sono mancati i poveracci che hanno votato Trump. Il che va a disdoro dei suoi oppositori, come anche a loro onta va il fatto che non hanno saputo elaborare una prospettiva moralmente solida e coerente: non l’ha fatto Biden, probabilmente per via di tattica elettorale, e tanto meno lo fece la Clinton nel 2016, probabilmente perché troppo coinvolta con il mainstream della politica percepita come alla moda.
Il caso dell’aborto è significativo al riguardo. C’è chi ha accusato Biden di essere favorevole all’aborto anche “al 9º mese”: cosa assurda visto che Biden è cattolico praticante. Eppure nell’ambito della manipolazione dell’opinione pubblica la cosa è stata diffusa piuttosto ampiamente, sia nei social che nei mass media.
Il tema dell’aborto ha acquisito rilevanza solo nelle campagne presidenziali di Trump; prima, da quando è stato accettato e regolamentato nel 1973 con la sentenza della Corte Suprema “Roe vs Wade”, non aveva mai occupato una posizione così rilevante nel dibattito per la scelta del Presidente. Ai fini demagogici tutto serve.
Ma il presuntamente antiabortista Trump è invece molto favorevole al mercato delle armi. Quando nell’ambito di uno dei dibattiti elettorali con la Clinton si parlò di costituzione egli manifestò il suo profondo attaccamento alla legge fondamentale londandone il secondo emendamento, quello che, approvato in un territorio ancora selvaggio nel 1791, garantisce il diritto a detenere armi, anche per difendere la repubblica. A Trump è servito per avere i voti della National Rifle Association, una delle più potenti lobby esistenti nei pacifici USA.
America first e pace nel mondo
In politica estera dai suoi sostenitori Trump è elogiato come uno che ha evitato di estendere le guerre esistenti e ha posto le basi per i nuovi trattati di pace coi cosiddetti Accordi di Abramo che hanno portato Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Sudan a riconoscere il diritto all’esistenza di Israele.
Mentre c’è da augurarsi che tale politica prosegua e si estenda, ci sarebbe pure da augurarsi che la politica di scontro inaugurata da Trump contro la Cina cambi direzione.
I rapporti tra Cina e resto del mondo sono diventati quelli sui quali si gioca la pace nei prossimi anni. Bannon, lo scudiero di Trump, non solo si è dichiarato convinto che sia inevitabile lo scontro militare tra USA e Cina, ma si è anche impegnato in una politica di attivo intervento in Cina in funzione anticomunista. Difficile supporre che tale politica possa avere maggior successo di quello che ebbero le precedenti già citate operazioni in Vietnam o Cuba.
L’establishment
Che lezioni trarrà il cosiddetto establishment statunitense, dai passati quattro anni di presidenza Trump? Il Partito Repubblicano ha mostrato di essere in gran parte soggiogato da Trump: altrimenti non vi sarebbe stata una maggioranza di parlamentari repubblicani a sostenere tanto a lungo le pretese trumpiane sulle frodi a suo danno (anche questo è assai curioso, un presidente in carica che lamenta di avere contro l’apparato statale che lui stesso controlla: ma del resto è coerente con la demagogia trumpiana di governare facendo opposizione).
Il lungo periodo di incertezza istituzionale imposto dal rifiuto di accettare la sconfitta elettorale, ha mostrato la fragilità interna degli Stati Uniti.
Tutto il patrimonio di rispetto che gli USA si sono conquistati nel mondo grazie al loro intervento nella seconda guerra mondiale è ormai consumato – beninteso, non dal semplice episodio della degenerazione trumpiana, ma dal seguito di crisi finanziarie e dalla politica di aggressione impostasi con la guerra col Vietnam e continuata in tante altre parti del mondo.
L’establishment statunitense con l’epoca Trump è stato messo di fronte alla sua drammatica corruzione interna.
Potrà tentare di recuperare parte del prestigio perso solo se saprà reimpostare una politica fondata non sull’ideologia anticomunista e iperliberista, solo se saprà recuperare una visione di carattere veramente internazionale, come quella che ispirò coloro che costituirono gli organismi internazionali legati all’ONU e volti a favorire un mondo in cui le differenze tra i Paesi non si risolvessero in conflitti ma in collaborazione.
Il che, beninteso, non è compito solo degli USA, ma riguarda anche, forse anzitutto l’Europa che, grazie a Trump ha potuto rendersi conto di non essere un’appendice degli Stati Uniti, e di non poter evitare di farsi carico della propria eredità di civiltà, non delegabile ad alcuna altra regione del mondo.

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