ENI, Mattei, Fanfani e la stagione delle “vere” riforme prima della giungla delle privatizzazioni

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Il palazzo ENI all’EUR, Roma. Foto di Dueduezerosettesettequattro - His work (from it.wiki). Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=4033451

di Aldo Ferrara

Ricorre il 10 febbraio 2023 il 70° anniversario della legge 136/53 (Fig. 1) che istituiva l’Ente Nazionale degli Idrocarburi (ENI), fortemente voluta da quel gigante dell’economia di Stato che fu Enrico Mattei, rievocato in questa sede per il tragico anniversario della morte, appena trascorso (27 ottobre 1962 – cfr https://www.frontiere.info/enrico-mattei-ucciso-due-volte-uneredita-da-riscoprire-uneconomia-da-far-rivivere/).

Fig. 1 La pagina della GazzettaUfficiale con la legge istitutiva dell’ENI.

Alla gran parte di coloro che, nelle commemorazioni si sono riferiti al suo tragico decesso, non certo accidentale, va ribadito il ruolo fondamentale che egli svolse circa la presenza dello Stato in Economia.

Ci sono due avvenimenti che hanno segnato il destino del nostro Paese: due delitti, entrambi oscuri, i cui nessi li embricano e li fondono in un unico filone. Innanzitutto, sia per Enrico Mattei sia per Aldo Moro è più facile dire chi li volesse vivi e attivi rispetto a chi ne desiderasse la fuoriuscita, esercitata in ogni modo, dalla vita pubblica. Cosa li univa, cosa li rendeva indispensabili e quale percorso avevano sviluppato per crearsi così tanti nemici? Per richiamare Churchill, perché così tanti dovevano e devono tuttora a così pochi?

La risposta è nel loro percorso, più breve per Mattei e più lungo e operoso per Moro. In questo percorso c’è, ben evidente, la concezione dello Stato, del pubblico, del servizio al cittadino.

Fu Mattei ad iniziare il percorso della presenza pubblica, cioè dello Stato, nell’economia del secondo dopoguerra. E con l’istituzione dell’Ente Nazionale Idrocarburi permesso dalla L.136/53 egli inaugurò la stagione delle Riforme. Il Paese da ricostruire, la necessità di alimentare l’industria vorace di energia erano gli elementi che lo spinsero a cercare fuori e dentro i nostri confini petrolio e gas. Non avevamo materie prime, uscivamo da una guerra scellerata con alle spalle una dominante tradizione agricola con solo qualche sprazzo in Lombardia e Piemonte di insediamenti industriali. Che questi insediamenti fossero ben lontani dalle nostre tradizioni contadine lo dimostrano le condizioni del Veneto, oggi il ricco Nord Est ma nella prima metà del XX secolo regione di emigrazione sostanzialmente dedita all’agricoltura.

Mattei andò a cercare i carburanti, li portò in Italia a prezzi vantaggiosi, pose le pietre miliari degli scacchieri petroliferi internazionali, a cominciare dalla Russia sovietica che non aveva ancora intuito il grande potenziale degli idrocarburi. Nel Mediterraneo ebbe il colpo di genio: non solo catturò il petrolio a prezzi apparentemente in svantaggio con la formula seventy five/ twenty five , ma con questo sistema mise fuori gioco la BP e le Sette Sorelle americane ( Standard Oil, ExxOn, Mobil, etc). Ed ancora indusse, da ottimo partigiano cristiano ed “esportatore della democrazia” il FLN dell’Algeri di Ben Bella, l’Egitto di Nasser e il Marocco di Mohammed IV, all’emancipazione totale dai Paesi colonizzatori, quelli del patto Sikes-Picot, Gran Bretagna e Francia, a fare definitivamente le valigie. Da questi eventi nacque la crisi di Suez e contestualmente il patto di Bandung dei Non Allineati dove, guarda caso, c’era pure Tito. Bandong = Mediterraneo, dove l’azione di Mattei fu fulminea e martellante.

Nel volume “Enrico Mattei , il visionario”1 il sottoscritto riporta un brano di intervista in cui Giorgio Ruffolo rievoca l’incontro tra il Presidente dell’ENI e Alexey Kosigyn, vice Primo ministro del Governo Sovietico, il quale soleva ripetere che il regime di Mosca non faceva affari con i capitalisti. Mattei replicò dicendo che lui non era affatto un capitalista e dell’ENI non possedeva nulla, e non era un funzionario, non era deputato o ministro, ma rappresentava in quel momento lo Stato Italiano che aveva bisogno di energia fossile al più basso prezzo possibile.

Oggi quel prezzo è sempre il più alto possibile, l’Ente di Stato è privatizzato, solo il 30% appartiene al popolo italiano (2,97% Ministero Tesoro e 27,03% Cassa Depositi e Prestiti).

Nessuno meglio di Mattei interpretò il disegno keynesiano: intervento degli investimenti pubblici per aumentare il reddito globale (y), difendere occupazione e salari. Nella tabella n. 1 si sintetizzano gli scopi della politica economica di Mattei.

Tab. 1

La nazionalizzazione dell’industria elettrica

I germogli del centro-sinistra si videro con il quarto Governo di Amintore Fanfani. Nato nel febbraio 1962, ultimo della III Legislatura, doveva traghettare i socialisti al governo, cosa che avvenne poi nel 1963 con il Governo Moro I. La natura del Governo Fanfani fu subito resa nota con la presentazione, maturata tra il Ministro dell’Industria Colombo, del Bilancio La Malfa e del Tesoro Tremelloni, del disegno di legge n. 3906 titolato “Istituzione dell’Ente per l’energia elettrica e trasferimento ad esso delle imprese esercenti le industrie elettriche”.2 Il concerto tra questi esponenti di spicco di DC, PRI e PSDI mostrava, più di qualsiasi considerazione o commento, il carattere di urgenza e la tipologia di programmazione politica che il Governo si apprestava a sviluppare: la svolta del centro-sinistra incipiente, il ruolo riformatore di questa nuova politica, elementi che erano stati subito avversati dal PCI che ne era rimasto escluso.

Il disegno era chiaro: lo Stato deve intervenire in ogni condizione economica in cui si possa registrare la condizione di Monopolio, che in mani private sarebbe insoddisfacente per procurare i dovuti vantaggi alla popolazione e foriera di diffusione del liberismo nell’economia.

L’energia elettrica era fornita a macchia di leopardo nel territorio, con gravi esclusioni di aree montane o insulari, spesso non servite. Poche e esose imprese assicuravano l’elettricità a cifre non competitive. Per qeusto si rendeva necessario un intervento perequativo dello Stato.

E, sempre per intervento del Presidente dell’ENI, nacque da subito la prospettiva programmatica di sviluppare una politica unitaria dell’energia, accorpando l’ENEL, Ente Nazionale Energia Elettrica, con l’ENI, in quanto l’energia elettrica, fatta salva la componente idro-elettrica, era sostenuta dai combustibili fossili.

Già subito dopo l’istituzione dell’ENI, con la L.136 del febbraio 1953, Mattei nel settembre dello stesso anno acquisì il controllo del 50% della SIFE, Società Italiana Forze Endogene progettando un programma di investimenti in ricerca pari a due miliardi all’anno per cinque anni della società. Il progetto poi si arenò per il prezzo dell’energia elettrica da distribuire nella rete della Finelettrica.3 La SIFE venne sciolta e l’Eni dovette aspettare il 1962 per proseguire sulla linea cosidetta verticale dell’accoppiata energetica di Stato, ENEL + ENI.

La cauta scalata di Mattei all’energia continua nel 1954 con il tentativo di accorpamento all’ENI delle fonti energetiche naturali del grossetano e dell’area maremmana toscana e l’acquisizione delle attrezzature tecniche di Larderello in gestione alle Ferrovie dello Stato.4

Si fanno dunque strada le idee del Codice di Camaldoli.5 Del quale l’interprete di punta al Governo è il suo stesso Presidente, Fanfani, menrte nel backstage ci sono ancora Giorgio La Pira con Enrico Mattei. Giuseppe Dossetti si era ritirato dalla politica, Sergio Paronetto non c’era più dal 1945.

Fanfani aveva le idee chiarissime: il suo intento politico comprendeva numerosi obiettivi, tutti coerenti tra loro. L’allargamento della maggioranza ai socialisti esercitava un’azione di traino sulla politica riformatrice, tranciando del tutto il cordone ombelicale che univa il Blocco del Popolo. Isolava i comunisti relegandoli al rango di opposizione primaria, e consentiva un’auspicata stabilità di governo con una maggioranza di quattro partiti. Si lasciava così alle spalle le secche degli anni Cinquanta, che erano stati caratterizaati da una governabilità dimezzata: quella che nel 1953 aveva indotto la DC a chiedere il premio di maggioranza con la cosiddetta legge truffa, la Legge n. 148 del 31 marzo 1953, la norma che avrebbe assegnato un premio di maggioranza pari al 65% dei seggi disponibili alla Camera dei Deputati allo schieramento politico che avesse superato la metà dei voti validi.

La posizione di Togliatti fu subito proiettata in senso contrario. Egli riteneva che la presenza statale nell’economia fosse “cosa cattiva”, memore del corporativismo del Ventennio rivestito da “regime di paternalismo clericale e di sempre maggior discriminazione politica, attraverso l’accumularsi di sempre nuovi e pesanti apparati statali e parastatali”6. Non fa riferimento alla libera iniziativa ma preannuncia quel che poi verrà, la pesante presenza del parastato e la pessima interpretazione della partecipazione statale.

Ma il progetto di un Ente unico per l’Energia è sostenuto da Mattei e trova in Fanfani una formidabile sponda di appoggio. Ben prima della nazionalizzazione del 1962, nel luglio del 1958 egli aveva affermato:

Nessuno pensa di menomare le garanzie costituzionali della iniziativa privata…  Conoscendo le insufficienze che anche la più volenterosa iniziativa privata manifesta, ci proponiamo di colmarle ed integrarle a servizio del bene comune con il ricorso all’attività pubblica, da svolgersi con criteri economici e per le iniziative autorizzate dalla legge.

Quanto già esiste in questo campo deve essere sottoposto ad un riordinamento che distribuisca più razionalmente le competenze e le imprese tra I.R.I. ed E.N.I., regolarizzi con apposita legge la creazione recente degli enti di gestione, inquadri le imprese statali o a prevalente partecipazione statale in apposita associazione, stimoli il progresso di esse associando i lavoratori ai benefici dell’aumento di produttività e quindi alla formazione di nuovo capitale azionario con conseguente partecipazione alle responsabilità della gestione.

E nel riordinamento previsto comprendiamo la concentrazione in apposito ente di tutte le partecipazioni statali nel settore di ricerca, produzione e distribuzione di energia di qualsiasi specie, in modo da affidare con successo ad esso un intervento sistematico diretto ad integrare le manifeste insufficienze della iniziativa privata ed a sostenere con efficacia una doverosa politica regolarizzatrice della distribuzione dei prezzi dell’energia, specie secondo le esigenze dello sviluppo del sud e delle aree depresse..7

Qui Fanfani ripropone tutto il Codice di Camaldoli, specie nei suoi Titoli V, VI, VII: il ruolo della collettività nell’economia, il sostegno statale e la compartecipazione dei lavoratori dell’impresa e soprattutto il ruolo dello Stato nel “fallimento del Monopolio”.

La legge 132/1968

Un altro bene pubblico sociale è la salute. Immateriale quanto si voglia ma condizionata da risorse che molto materiali sono. Nel 1968 il Senatore Luigi Mariotti è Ministro della Sanità. Lo fu in quattro Governi, complessivamente dal 1964 al 1968 e poi dal 1970 al 1972.

Mariotti fu intrinsecamente un riformista, volle semplicemente attuare l’art. 32 della Costituzione che era rimasto in bilico d’attuazione e di cui nessuno si era curato. Fino al 1959 non esisteva un Dicastero per la cura, in un Paese falcidiato ancora da malattie infettive con un altissimo grado di morbilità tubercolare, non ancora endemica, contro cui si battevano i Consorzi Provinciali Antitubercolari, baluardo di difesa antiTBC nel territorio. Poi finalmente con la prevenzione primaria e secondaria della malattia, con l’ausilio della Medicina scolastica, la TBC si considerò eradicata o derubricata al livello endemico negli anni Sessanta, salvo poi riprendere quota tra la fine del secolo XX e l’inizio del XXI.

La legge di riassetto degli enti di assistenza e cura si imponeva: il sistema non godeva di uniformità del territorio, aveva ancora un carattere caritatevole affidato ad enti religiosi. La riforma prevedeva una graduale ricomposizione in senso statale delle sedi di cura, tendendo ad un’armonizzazione delle strutture nel territorio, eliminando le aree scoperte da sedi di cura, in previsione di affidare alle Regioni, in via di costituzione, il controllo e la gestione dell’assistenza. L’effetto fu quello di uniformare e rendere più razionale la rete sanitaria: le strutture e gli ospedali furono classificati in zonali, provinciali e regionali. Questa prima riforma comprendeva anche il riassetto delle mutue, che erano fonte di dissesto finanziario, e preludeva ad una più organica riforma che venne successivamente con la L. 833/78 e con l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale. 8

La legge 833/78

Questa legge è un Codice d’onore politico per i riformisti. Traduce nella pratica l’art. 32 Cost. e attribuisce allo Stato la prerogativa di salvaguardare la salute pubblica, rendendola un diritto inalienabile. La salute pubblica, in ossequio alla nostra Costituzione, è tutelata dallo Stato ma demandata alle Regioni per la sua gestione. In questi ultimi anni, al dibattitto sull’art.117 circa la divisione delle competenze tra Stato e regioni, nell’ambito della concorrenza legislativa, sono emersi due ordini di problemi:

  1. Demandando alle Regione la gestione della salute pubblica (L. 502/92) si è di fatto istituito il Sistema Sanitario regionale, finanziato dal sistema fiscale regionale e statale. Ciò ha creato condizioni di discrepanza gestionale con rendimenti differenziati in tema di assistenza. Il disavanzo creato ha costretto molte Regioni a entrare nel sistema dei Piani di rientro, non ancora completato e poi oscurato dalla pandemia e dal successivo PNRR;

  2. Come afferma la Corte Costituzionale, “la tutela del diritto alla salute non può non subire i condizionamenti che il legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie di cui dispone”. Nelle sentenze 267 del 1998 e 252 del 2001 precisa che “…le esigenze delle finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irrinunciabile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, ed è certamente a quest’ambito che appartiene il diritto dei cittadini in disagiate condizioni economiche o indigenti…”.9

  3. Il Capitolo di spesa sanitaria, oggi attestato sui 120 miliardi, è il più alto del Bilancio nazionale. Esso è cresciuto passando dai 68 miliardi di euro del 2000 ai 116 miliardi del 2018 ( +69%), una progressione che avrebbe dovuto consentire un’equa e paritetica distribuzione dell’offerta sanitaria. 10 11

  4. La spoliazione della Medicina territoriale o di prossimità, la concentrazione dell’offerta sanitaria in Aziende ospedaliere, l’imbuto della gestione totale omnicomprensiva della diagnosi e cura, l’introduzione del DRG, l’attivazione della sussidiarietà con affidamento alla sanità privata, il ruolo delle assicurazioni entrate nel “ mercato della sanità” hanno fatto sì che la riforma del 1978 venisse completamente stravolta, coinvolgendo nella rovinosa caduta anche i bilanci delle Regioni, che nella misura 72-80% sono destinati proprio alla sanità. Eppure il malcontento, le liste d’attesa si traducono in un generale malumore nell’opinione pubblica, perché, a dispetto delle tante parole enunciate, poco o nulla si sta realmente facendo per aumentare il tono e la caratura dell’offerta di salute. V. Fig. 2

    Fig.2 Andamento della spesa sanitaria globale, dal 2000 al 2018 (da Luca Gerotto, Osservatorio CPI).

In conclusione, il più alto capitolo di spesa del Bilancio nazionale non è stato in grado di soddisfare le esigenze di salute del cittadino. Prima delle leggi 502/92 e 229/99 si spendeva circa la metà ma il rendimento era sicuramente migliore. A ciò si aggiunga la lievitazione della spesa privata, ormai sui livelli dei 35 mld di euro/anno. Il cittadino paga dunque la sanità per contribuzioni, dirette e indirette, spese specialistiche private, ticket e mancate detrazioni.

I beni comuni sociali

Il dibattitto sui beni Comuni ha assunto negli ultimi tempi un’onda di consenso popolare per aver riportato l’attenzione su argomenti scivolati nell’indifferenza collettiva. La Commissione Rodotà sui Beni Pubblici nel 2007 aveva avviato dibattito e riforma del codice civile su beni come boschi, lo stesso paesaggio protetto dall’art.9 della Cost., aria, acqua, rientrando tutti in una grande allocazione giuridica che nelle Fig. 3 cerchiamo di classificare.

La Tabella indica una storica ripartizione tra beni pubblici e privati, rivali ed escludibili.

Fig. 3 Classificazione dei Beni Pubblici e Beni Privati12

Oggi tuttavia tale classificazione tende a uscire dal contesto del Diritto privato e amministrativo e sconfina nella vita politica quotidiana allorchè inizia la stagione delle privatizzazioni. Nella normativa più recente. la L. 244/2007, ai commi dal 313 al 319 dell’Art. 1, si prevede il “piano di valorizzazione dei beni pubblici per la promozione e lo sviluppo dei sistemi locali”13. Detta legge fu poi integrata dal D.lgs 112/2008, convertito con modificazioni dalla L. 133/2008, inteso a programmare il Piano delle alienazioni e valorizzazioni relativo al patrimonio immobiliare di Regioni, Comuni ed altri enti locali, piano che istituisce la classificazione del patrimonio disponibile degli immobili. Nel successivo D.lgs. 85/2010 detto “sul federalismo demaniale”, l’art. 2 prevede l’individuazione di beni statali da attribuire a titolo non oneroso a Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, i quali beni, previa valorizzazione, potranno essere da questi Enti inseriti in processi di alienazione e dismissione.

Pubblico o privato?

Nell’attuale contesto giuridico, ma più in generale in quello sociale, sembrano emergere due forze contrapposte, vale a dire un continuo impulso alla privatizzazione dei beni pubblici da un lato e un rinnovato interesse per i beni comuni dall’altro. Si è allora cercato di scendere nel dettaglio della normativa sulle privatizzazioni, verificando in itinere come il legislatore non abbia considerato il sistema dei beni pubblici nella sua complessità che va ben oltre l’oramai superata tripartizione codicistica tra beni demaniali, beni patrimoniali indisponibili e beni patrimoniali disponibili. Olivi richiama le osservazioni di Massimo S. Giannini il quale pone l’attenzione sul “… quasi completo silenzio normativo per i beni pubblici e i diritti reali pubblici fa contrasto con la disciplina dei beni e dei diritti reali privati, e sembra quasi smentire il principio di tipicità dei diritti reali o almeno parzialmente derogarvi. Se però dalle norme passiamo alla dottrina, ci avvediamo che sui beni e i diritti reali esiste un corpo di tradizione dottrinale che si presenta dotato di una solida consistenza. …Siamo così in presenza di uno dei non molti settori del diritto positivo odierno del nostro paese, in cui vige una normazione giurisprudenziale, nel senso storico del concetto; una normazione su cui si fondano e in cui si confondono elaborati consuetudinari con insegnamenti della scienza e pronunce giurisdizionali”.

Nella classica differenziazione tra beni pubblici, beni pubblici sociali, beni comuni, va richiamato il termine “beni demaniali” a proposito dei quali, richiama Olivi, occorre però distinguere due momenti nettamente distinti delle privatizzazioni dei beni conseguenti alla privatizzazione degli enti quando si ha riguardo ai servizi di pubblica utilità. Un primo momento riguarda le privatizzazioni degli enti che da pubblici diventano (almeno formalmente) privati, rimanendo tuttavia monopolisti del servizio cui i beni sono adibiti. Un secondo momento interviene con la liberalizzazione dei servizi di pubblica utilità ed il venir meno del monopolio del servizio. Quanto al primo momento si pensi a come si pose la questione della natura dei beni destinati a pubblico servizio, a seguito della trasformazione dell’ente ferrovie dello Stato da ente pubblico economico a società per azioni.14

Come si desume dalle parole di Olivi, vi è anche un nodo politico: con le privatizzazioni e la conseguente immissione di beni pubblici sul mercato, anche azionario, si sposta l’asse di equilibrio nel bilanciamento tra pubblico e privato, con il rischio assai concreto di favorire il privato e deprivare la collettività di beni e servizi. Volendo estremizzare, la privatizzazione sembra uno strumento idoneo a spostare in modo legale capitali dal pubblico al privato senza ottenere vantaggi reali per la collettività.

Conclusione

Vi è nel Paese una forte tradizione solidaristica che si è consolidata nel tempo con l’incontro delle due culture politiche principali del Paese: quella cristiana e quella socialista. Ma alla base vi è una dottrina, quella di Maynard Keynes che ha dettato le leggi economiche che giustificano l’intervento dello Stato, specie nei momenti di crisi di bilancio, nell’economia. Con Keynes è nata la macroeconomia, la formulazione più appropriata della domanda aggregata, il ruolo della Stato nel fallimento del monopolio, la difesa del reddito, dell’occupazione e dei salari.

La politica italiana, quando era improntata a questi concetti portanti, aveva creato un aumento di PIL pari al 6% annuo per almeno un decennio, dai primi anni cinquanta fino al 1965. Ovviamente quella situazione godeva di una contingenza particolare, dalla guerra fredda alla riscossa post-bellica, al piano Marshall e alla presenza dell’Italia nel mondo del mercato libero. Ma aveva una base concettuale che stiamo perdendo nella presunzione che il bilanciamento tra liberismo e solidarismo possa sempre avvenire.

Il ricordo degli anniversari ci relega al ruolo di laudatores temporis acti? Forse, ma per intravedere il futuro un’occhiata alla storia delle riforme italiane, poche ma salvifiche, ci può essere di grande ausilio.

NOTE:

1. Aldo Ferrara. Enrico Mattei, il visionario, Agora&CO, Lugano, LaSpezia, 2022

2. Camera dei Deputati, Proposta di legge (“Istituzione dell’Ente per l’energia elettrica e trasferimento ad esso delle imprese esercenti le industrie elettriche”), n. 3906, III Legislatura, 26 giugno 1962.

3. Paolini F. 6 dicembre1962: LA NAZIONALIZZAZIONE DELL’INDUSTRIA ELETTRICA È LEGGE. Policlic.it, 25. Novembre 2019.

4. A. Savignano,ll regime normativo, in P. Bolchini et. al., Storia dell’industria elettrica in Italia, 4. Dal dopoguerra alla nazionalizzazione. 1945-1962, V. Castronovo (a cura di), Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 106. Cit. da Paolini F.

5. Nel luglio del 1943, prima dell’armistizio di Cassibile, si riunirono nel Convento di Camaldoli esponenti della nascente DC. Publicisti o politici come Andreotti, Gonella, Moro, Medici, un gruppo di economisti dell’Università Cattolica di Milano (Sergio Paronetto, Ezio Vanoni, Pasquale Saraceno, Giorgio La Pira). Stilarono un Documento, Il Codice appunto, che in VII Titoli espone il programma sociale e politico dei giovani cattolici italiani: I – Lo Stato, II – La Famiglia,III – L’Educazione,IV – Il Lavoro,V – Produzione e scambio,VI – Attività economica, VII – Vita Internazionale.

6. Baget-Bozzo, Il partito cristiano e l’apertura a sinistra. La DC di Fanfani e di Moro 1954-1962, Firenze, Vallecchi Editore, 1977, p. 143.

7. Camera dei Deputati, Assemblea, Resoconto stenografico. III Legislatura, Seduta del 9 luglio 1958, p. 102.

8. Ferrara A. Quinto Pilastro, il tramonto del SSN, Ed. Bonfirraro, 2016

9. Relazione della Delegazione della Corte Costituzionale nell’incontro con il Tribunale Costituzionale della Rep. di Polonia. I diritti fondamentali nella Giurisprudenza della Corte Costituzionale. Varsavia, 30-31 marzo, 2002.

10. Gerotto L. L’evoluzione della spesa sanitaria. Osservatorio CPI, Università Cattolica Sacro Cuore, Milano, 14.03. 2020.

11. Ferrara A. Paradosso sanità, meglio quando costava meno. Avanti, novembre 2020.

12. Ferrara A. Planetta E. Next UE, a new powertrain. Aracne, 2022.

13. In particolare, il comma 313 stabilisce che il Ministero dell’economia e delle Finanze, di concerto con il Ministro dei beni culturali, tramite l’Agenzia del Demanio, nel rispetto delle attribuzioni delle Regioni, d’intesa con gli enti interessati, individua ambiti di interesse nei quali sono presenti beni immobili di proprietà dello Stato e di altri soggetti pubblici per promuovere in ciascun ambito un programma unitario di valorizzazione; il comma 314 stabilisce che il Ministero propone il “Piano per la promozione e lo sviluppo dei sistemi locali, che rappresenta l’insieme dei programmi di valorizzazione da approvare da parte della Conferenza unificata di cui all’art. 8 della legge 281/1997. Viene dato inoltre impulso ai programmi unitari di valorizzazione (PUV) già previsti dal dl 351/2001 ed è interessante notare che ciascun programma unitario di valorizzazione può assumere efficacia di strumento di attuazione di iniziativa pubblica o privata anche configurando ipotesi di costituzione di comparti di riqualificazione del territorio. In Marco Olivi. Beni pubblici tra privatizzazioni e riscoperta dei beni comuni. Amministrazione in cammino, 2005.

14. M. OLIVI. Beni demaniali ad uso collettivo. Conferimento di funzioni e privatizzazione, Padova, 2005.

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